Seduta sulla panchina leggevo i quotidiani al primo sole di marzo.
Di domenica Roma è silenziosa alle 8 del mattino. Si sentono soltanto le frenate degli autobus, i cani che, abbaiando, corrono liberi sui prati e il fiatone degli sportivi in corsa.
Quella mattina passeggiavano anche due giovani papà con i loro piccoli. Si fermarono davanti al bar vicino e, mentre slacciavano i golfini ai bambini sudati, arrivò alle mie orecchie un pezzo della loro chiacchierata.
“Andiamo a prendere un caffè?” – chiese il giovane biondo e riccioluto – “No, Luca, io il caffè lo prendo sempre a casa” – rispose l’altro papà bruno. I bambini si misero a giocare con un cucciolo che saltellava nei pressi e i due continuarono la conversazione.
“Tua moglie lo fa bene il caffè?”
“Assolutamente no. Lo faccio sempre io!”
“Ah, allora sei tu il casalingo più bravo.”
“Ma che dici, mi vien fuori una ciofeca!”
“Embeh, perché insisti allora?”
“Non rinuncerei mai per tutto l’oro del mondo. Lo preparo per svegliare mia moglie che si alza appena sente brontolare la nostra vecchia caffettiera e l’aroma del caffè spargersi per casa. Viene in cucina, si siede, si guarda intorno, si strofina gli occhi, apre le braccia e finalmente “mi mette a fuoco”. E sai che succede? Il suo viso si illumina! Capisci? Si illumina appena mi riconosce! Beviamo insieme la nostra acqua riscaldata e per qualche secondo ci attraversiamo con gli occhi.”
“Che marca di caffè usi? Vorrei provarci anche io”.
“Si, penso che si chiami “amore”.
Continuai a leggere la cronaca dei barconi pieni di disperati che vagano nel loro mare di speranza. Quelle parole rubate in un mattino romano mi fanno spesso pensare alla nostra cecità. Basterebbe mettere a fuoco un viso e attraversarlo per qualche istante con gli occhi.
Ma, forse, è difficile trovare il caffè “amore”.