C’è una donna che da decine di anni cerca di tenere vivo il dibattito politico-culturale in questo villaggio indolente che è Trinitapoli. Quella donna cerca di tenere viva pure la mia voglia di farvi conoscere le mie trascurabili opinioni. Qualche giorno fa, Antonietta D’Introno mi ha chiesto di scrivere un pezzo per il Peperoncino. Le ho risposto che non potevo perché non avevo niente da dire, o meglio non avevo niente da dire che potesse risultare interessante, o utile, o almeno non inutile.
«Di cosa dovrei parlare? Della mafia? Io non ho mai conosciuto un mafioso, non so chi siano, come si vestano, come si riconoscano, cosa facciano. Qua parlano tutti i giorni di mafia, mafia, mafia, ma io, Antonietta, perdonami, non so di che parlano. Vedo delinquenti e maleducati, comportamenti scorretti, infrazioni e porcherie, tutti i giorni. Vedo uno Stato completamente assente e attribuisco alla sua inefficienza le distorsioni del vivere civile. Vedo politici incapaci, amministratori inefficaci e boriosi. Mafiosi non saprei, non ne conosco. Di che parlo, allora? Ho visto Il Padrino, ha vinto non so quanti Oscar. Quello che so della mafia l’ho imparato da Francis Ford Coppola. Parlo del film? O parlo delle macchine incendiate? Quando il mio papà faceva il sindaco, io ero molto piccolo. Ricordo poco, ma una cosa la ricordo bene: incendiavano macchine a tutta forza. Era più di quarant’anni fa. È un racconto noioso. Di che parlo? Della manifestazione contro la mafia che hanno fatto dopo l’incendio della scuola in costruzione? Non ci penso proprio! Cosa dovrei dire? Che hanno prelevato decine di adolescenti riluttanti dalle classi in cui, ancor più riluttanti, bivaccano rumorosamente in attesa della campanella per condurli ad ascoltare una ventina di discorsi sulla MAFIAH! di cui non sanno niente e a cui sono totalmente disinteressati, annoiandoli a morte? Venti discorsi! Ma se non ne ascoltano uno filato neanche dai loro genitori, perché dovrebbero stare a sentire VENTI, dico VENTI! (o forse più) oratori che parlano male dei loro beniamini? I modelli di questi ragazzi sono Gomorra e Mare Fuori, e glieli vogliono distruggere parlandone male per ore? Va bene, le intenzioni erano buone, ma il risultato…»
L’ho trattata male insomma. Dice: no, queste cose non le puoi dire, altrimenti ci inimichiamo molta gente per bene, gente che sta soffrendo veramente e che sta lottando. Fai così, lascia stare la mafia, parla della guerra.
«Perché? Se parlo della guerra mi faccio qualche amico? Quando è cominciata più di un anno fa, hanno cominciato con la tiritera dell’aggressore e l’aggredito e siamo fermi là. Il dibattito non ha fatto un passo in avanti, la propaganda domina. Apportare elementi critici per alimentare una discussione ormai esclusivamente bellicista serve solo a farsi dare del putiniano. Che parlo a fare della guerra? Che dovrei dire? All’inizio, bisognava spiegare ai creduloni che si bevevano la storia dell’indipendenza dell’Ucraina, della Libertà, della protezione della Democrazia, che era tutta propaganda di guerra. Bisognava spiegare che il vero confronto era tra imperialismo americano e imperialismo russo, che la NATO espandendosi fin sotto il naso dei russi era una provocazione inaccettabile, che la guerra è partita nel 2014 e l’aveva iniziata l’Ucraina contro i suoi stessi cittadini del Donbass, e via discorrendo. Ora, queste cose sono chiarissime, nessuno le mette più in dubbio. La gente ti risponde: sì, è vero! La guerra è tra noi (si sentono tutti americani) e i russi! Sì, è vero! La NATO mette i missili atomici alle porte di Mosca, e con ciò? Sì, è vero! La guerra l’ha cominciata l’Ucraina, ma aveva il diritto di farlo perché quegli ingrati del Donbass non volevano sottostare al governo legittimamente imposto dagli americani con un colpo di stato. Così ti risponde la gente, cara Antonietta. Le cose sono chiare: tutti sanno che gli americani sono prepotenti e portano guerre ovunque da quasi ottant’anni, ma gli sta bene così. Perciò, che scrivo a fare? Per inimicarmi altra brava gente che crede alla favola degli americani esportatori di democrazia?»
A un certo punto Antonietta si è quasi arresa. Quasi. Almeno scrivi la recensione di un libro!
E va bene.
Leggete Lonesome Dove di Larry McMurtry (Einaudi, 2017). È il leggendario romanzo western che garantì al suo autore il Pulitzer per la letteratura nel 1986 e che rilanciò l’omologo genere cinematografico. È merito di McMurtry (premio Oscar 2006 per la miglior sceneggiatura non originale con I segreti di Brokeback Mountain) se capolavori come Balla coi Lupi e Gli Spietati hanno poi visto la luce. È il miglior western che vi capiterà fra le mani, se escludiamo i capolavori di Cormac Mc Carthy.
È il racconto classico della «epopea della frontiera», di come gli americani hanno fatto l’America, di come i pionieri conquistarono il West e di come la natura sia stata sopraffatta dalla volontà dell’uomo. È la storia di come degli uomini avidi di vita, abbiano seminato morte, eterna, implacabile, tollerata compagna di viaggio verso la prevaricazione dell’Uomo sull’altro Uomo. Vi emozionerete, forse piangerete, molto spesso riderete. Alla fine, capirete anche molte cose, e forse penetrerete nello spirito di un popolo che, al momento, condiziona il mondo intero attraverso gli stessi mezzi con cui ha prevalso nel West: la forza, le armi, la morte, la volontà di dominio sui popoli e sulla natura.
Visiterete lo spirito dell’America. Vi immedesimerete nell’americano. Ma non americano come vi sentite oggi, tipo: Putin, a noi due! No. Vi immedesimerete nelle sue perversioni e nelle sue paure, e forse percepirete il ticchettio zoppo di qualche ingranaggio nel suo cervello da cowboy. Non è roba da italiani, anche se a molti piacerebbe.
Per esempio.
Arrivano da lontano in una terra che non gli appartiene e si autoproclamano proprietari. I veri proprietari, gli indiani, fanno osservare per mezzo di arco e frecce che loro stavano lì da qualche millennio e che questi nuovi arrivati sono dei violenti aggressori. Com’è che si dice? C’è un aggressore e un aggredito. Gli americani, però, si arrogano il diritto di sterminarli tutti. Il motivo? Perché loro portano civiltà e libertà. Gli incivili sono gli indiani che si difendono con arco e frecce. A tutta prima, sembra che gli americani stiano compiendo un crimine contro l’umanità, ma in realtà dal loro punto di vista esportano civiltà: uccidono gli indigeni con delle asettiche pallottole di piombo, anziché squartarli selvaggiamente con un tomahawk. Insomma, gira e rigira, gli indiani meritano di morire.
E noi tutti ad applaudire i raffinati criminali.
Il genocidio dei nativi americani, detto anche genocidio indiano o olocausto americano, vide la morte violenta tra i 55 e i 114 milioni di indigeni americani, tra il ‘500 e i primi del ‘900. Solo nel Nord America ne furono sterminati 14 milioni. Il 9 dicembre è dal 2015 riconosciuta dall’ONU come Giornata Internazionale per la Commemorazione e la dignità delle vittime del Genocidio. Il 29 novembre, invece, è il Native American National Heritage Day, istituito nel 2009 da Barack Obama
Altro esempio di rotelle fuori posto?
I nuovi arrivati si espandono a suon di proiettili sempre più a ovest. Avanzano, massacrano e rubano terra. Avanzano, massacrano e rubano terra. E così fino al Pacifico. Eppure, tutto il racconto della conquista del West è un continuo avere paura dei selvaggi indiani. Cioè, quelli avanzavano, uccidevano e rubavano, però chi aveva paura non erano gli indiani, erano loro! E più rubavano e uccidevano, più erano terrorizzati. Uno normale direbbe: ma se hai tutta questa paura perché non la finisci di rompere il cazzo e te ne stai a casa tua? No! La mia missione è esportare civiltà.
I due anziani cowboy protagonisti di Lonesome Dove, i quali anni prima avevano sterminato molti Comanche, stanno ora cavalcando attraverso un’immensa prateria del West, un tempo appartenuta agli indiani. A un certo punto scorgono dei coloni.
Guarda qua – disse Augustus – Questa maledetta gente costruisce cittadine ovunque. È colpa nostra, sai.
Non è colpa nostra e non è nemmeno affar nostro. La gente può fare quello che vuole.
Diamine, certo che può, visto che abbiamo cacciato gli indiani e impiccato i banditi migliori. Non pensi mai che tutto quello che abbiamo fatto è stato un errore? Guardala dal punto di vista della natura. Se ci sono abbastanza serpenti, un posto non viene invaso dai ratti e da altre bestiacce. Secondo me, indiani e banditi hanno la stessa funzione. Se li lasci stare, non sarai costretto ad attraversare questi maledetti insediamenti.
Non sei costretto ad attraversarli. Che male ti fanno?
Se era la civiltà che cercavo, restavo nel Tennessee a guadagnarmi da vivere scrivendo poesie. Abbiamo fatto fuori tutti quelli che rendevano interessante questo paese.
Due aspetti mi colpiscono di questo dialogo.
Il primo è che gli americani di far fuori indiani[1] e banditi non hanno mai smesso: un tempo si chiamavano Cheyenne, poi Vietcong, poi Saddam Hussein, poi Putin, eccetera. Vogliono fare fuori tutti, rischiando di far fuori tutti i popoli che rendono interessante questo mondo.
Il secondo è che per quanti bambini (500 mila) siano morti a causa delle sanzioni e delle bombe americane in Iraq, per quanti vietnamiti e giovani americani abbiano perso la vita nel macello del Vietnam, per quanti innocenti siano morti sotto le atomiche di Hiroshima e Nagasaki, nessuno, ma proprio nessuno, neanche a Trinitapoli dove ormai è di moda, oserebbe mai chiamarli mafiosi.
Richieste di amicizia in privato. Grazie.
[1] So che nell’era della suscettibilità c’è qualcuno che potrebbe storcere il naso perché chiamo gli indiani «indiani», e non «nativi americani». Il motivo è che a me piace «indiani» o «pellirossa» e non mi importa della suscettibilità altrui. Nell’epoca folle che ci tocca vivere, capita pure che qualcuno si senta più offeso da come lo chiamano che dal fatto che gli hanno sterminato la famiglia.