Lo scorso 8 settembre l’amministratore della Tribigas, il dottore commercialista Pasquale De Lillo, ha presentato le sue dimissioni ai sindaci di Trinitapoli e Biccari, i comuni che detengono il capitale sociale della partecipata. Al momento non si sa se le dimissioni del dottor De Lillo saranno accettate. Certo è che se l’amministratore se ne voleva andare sbattendo la porta, ha ottenuto quello che voleva: il rumore si è sentito forte.
La lettera di dimissioni di De Lillo, che si dice «stanco di essere oggetto di accuse infondate, di illazioni, di campagne denigratorie», è un vero e proprio atto d’accusa nei confronti di chi ha voluto la sua estromissione, in primis l’opposizione capeggiata dall’ex sindaco Barisciano. Proprio la sua compagine, infatti, ha preteso la convocazione di un consiglio comunale in piena canicola agostana per chiedere la revoca di De Lillo. (Il consiglio si è poi tenuto il 22 agosto sera, di domenica. L’opposizione ha gridato allo scandalo. Io ancor di più perché c’era la partita della Juve).
In quella sede – proprio mentre i bianconeri si facevano recuperare un doppio vantaggio dall’Udinese – Barisciano, tonitruante d’indignazione, esponeva che: 1. Il Comune non ha le linee di indirizzo per la nomina degli amministratori di partecipate; 2. De Lillo non poteva essere nominato perché era stato assessore poco prima e (a suo dire) non era trascorso il periodo previsto dalla legge per diventare amministratore di partecipata; 3. il genero di De Lillo è socio di una società concorrente della Tribigas. (Scusate la sintesi brutale, ma l’argomento è già palloso di suo).
Grande impressione ha suscitato l’intervento di Barisciano allorquando, dandoci di diaframma come non mai, ha denunciato che, a fronte di tutte queste magagne, De Lillo percepisce «lauti compensi». Come?! Un amministratore che non potrebbe neanche esserlo percepisce pure «lauti compensi»? Il cinquestelle che è in me (ma proprio nelle viscere, quello che mi fa venire le coliti) ha sussultato di sdegno.
Oggi, con la Juve in fondo alla classifica, leggendo la lettera di dimissioni di De Lillo, si ha l’impressione che Barisciano abbia fatto come Kean: autogol all’esordio.
Nella sua lettera di dimissioni, l’ormai ex amministratore di Tribigas risponde argomentando e dando l’impressione di avere le idee chiare. Si tratta di questioni tecniche, aspre da digerire per chi non si occupa di questioni legali. La mia impressione è che si tratti di fattispecie complicate da trattare perfino in un’aula di tribunale, figuriamoci in consiglio comunale, ad agosto e col campionato di calcio in corso. Io la mia opinione ce l’ho, ma vale quanto il centrocampo della Juve: niente. Ognuno, se vuole, si faccia la sua idea. Tanto ormai stiamo pieni di professori. La lettera di De Lillo la trovate qui: Lettera Dimissioni
Più interessante (e anche più facile da capire) è la questione dei ricavi della Tribigas. De Lillo scrive che quando era sindaco Barisciano la società produceva utili per una media di quasi 12 mila euro. Da quando De Lillo è diventato amministratore gli utili sono passati a una media di quasi 144 mila euro. Dodici volte di più! Come è possibile una tale discrepanza?
Quando in consiglio comunale qualcuno (credo il sindaco) gliel’ha fatto notare, Barisciano ha minimizzato, mostrandosi dubbioso sulla natura di quei numeri così eclatanti. Sul punto immagino che sia doveroso da parte dell’opposizione chiarire in che modo i numeri di De Lillo non rispecchino la realtà secondo il loro giudizio. No, perché, se i numeri sono davvero quelli esposti da De Lillo è bene dirlo: Barisciano ha fatto un triplo autogol carpiato.
In attesa di delucidazioni, dedichiamoci a un fatto politico più interessante: i «Lauti Compensi».
Sempre nella lettera di dimissioni, De Lillo rivela che il suo lauto compenso è di circa 600 euro netti al mese. Ora, va bene tutto, ma definire «lauto compenso» un mensile di 600 euro per gestire una società che fattura milioni, gestisce 6000 forniture e sviluppa 36.000 fatture (e la pressione del sangue a 180, aggiungerei) mi sembra sinceramente troppo. Eppure, l’uscita di Barisciano non è casuale. Dietro il «lauti compensi» per 600 euro c’è una dottrina politica ultimamente molto popolare, ma che va stigmatizzata.
Per troppo tempo, alimentata dalla ventata sbilenca dell’antipolitica, l’opinione pubblica si è assuefatta a pensare che per la gestione della Cosa Pubblica sia sufficiente risparmiare, non considerando che molto spesso risparmiare significa accontentarsi. Di risparmio in risparmio, la professionalità ha ceduto il passo all’incompetenza. A furia di abbassare stipendi abbiamo portato al comando una classe politica inadeguata. I migliori si disinteressano della vita amministrativa, restano nei loro studi o a curare le loro imprese, non accettano di farsi crocifiggere in pubblico per una retribuzione insufficiente. L’amministratore pubblico sopporta responsabilità e carichi di lavoro notevoli. Dirgli che sarà retribuito al di sotto di ogni parametro ordinario, significa dissuaderlo dal farsi avanti, aprire la strada agli incompetenti, ai reietti del mercato del lavoro, ai senza arte né parte, gli unici disposti a sobbarcarsi il costo umano delle responsabilità in cambio di ricompense minime.
Far passare questa filosofia è pericoloso dal punto di vista politico. È una dottrina di stampo pauperista e demagogico che ha avuto il suo culmine col successo dei partiti populisti ma che ora va rigettata. La Pubblica Amministrazione deve avvalersi dei migliori o quanto meno dei migliori in termini di “qualità/prezzo”. Seicento euro, lauto compenso? Ma scherziamo?!
È la stessa filosofia suicida che ha creato in Italia una platea enorme di professionisti poveri. Piercamillo Davigo ha ricordato una volta tanto una cosa giusta (sbarellando, poi, nel concludere il ragionamento; ma a questo siamo abituati). In Italia più della metà degli avvocati dichiara di guadagnare meno di 20 mila euro l’anno. Si tratta, dati alla mano, di circa 150 mila poracci. In condizioni paragonabili si trovano centinaia di migliaia di giovani professionisti: commercialisti, architetti, ingegneri. La generazione a cui anche Barisciano appartiene ci ha mandati a studiare per poi chiederci di accontentarci delle briciole o di un buffetto sulla guancia, mentre loro hanno avuto la fortuna di vivere in un’epoca in cui la Pubblica Amministrazione comprendeva l’importanza di una giusta retribuzione.
A loro retribuzioni e riconoscimenti, a noi pacche sulle spalle e «lauti compensi».
Ve pozzino!
Quando Barisciano si presenterà alla prossima tornata elettorale come candidato sindaco (perché è sicuro che si presenterà, non si accettano scommesse, non è quotato) cosa offrirà al prossimo amministratore della Tribigas? Vieni per 300 euro? Vieni per la gloria? Attenzione: di gente disposta a prendersi pesci in faccia per una sua carezza ce n’è, eccome. Ma è giusto affidargli la gestione di un’azienda pubblica? Non è forse meglio puntare sulla qualità e su figure professionali affidabili in cambio di un giusto compenso?
O dobbiamo tornare ad affidare la Tribigas ammiocuggino, che poi ci fa guadagnare un dodicesimo?