C’è stato un momento, tra scuola media e liceo, in cui io e Francesco siamo stati pressoché inseparabili. Fosse stato per noi, avremmo trascorso tutta la giornata ridendo a battute che facevano ridere solo noi e suonando canzoni metal che piacevano solo a noi. In realtà, nonostante trascorressimo insieme molto tempo, era pur sempre meno di quanto avremmo desiderato. Ciò che ci teneva distanti era il dovere, scolastico ed extrascolastico. Soprattutto Francesco studiava molto per la scuola e ancor di più per il pianoforte al conservatorio. Insomma, la cover band dei Metallica non l’abbiamo mai messa su. Poi è arrivata l’università e addio.
Salto di trent’anni: pubblico il mio primo romanzo, lui lo legge, gli piace, si riconosce in una delle vicende narrate, ne parla con me e cominciamo a vivere un rapporto come quello dei film in cui uno si sveglia dal coma dopo decenni e trova il mondo cambiato. Ci siamo parlati quando eravamo adolescenti, poi di nuovo a quasi cinquant’anni. In mezzo, scelte, carriera, vita, figli, famiglia. Una roba stranissima. Materiale per strizzacervelli quanto ne volete, ma io devo fare l’articolo e mi tocca riassumere.
Io e Francesco eravamo due vagoni sui binari degli anni ottanta, cellule di un convoglio in viaggio verso una meta chiara e indiscutibile: il successo, e cioè (detto nel linguaggio semplificante della società capitalista) la carriera, i soldi, il benessere. Determinazione, senso del dovere, studio, e soprattutto tempo, erano il propellente che alimentava il motore dei sogni, che spingeva e spingeva e spingeva i pistoni martellanti dell’angoscia, della paura di non farcela, dell’ansia da prestazione. Nella sua corsa, il treno lasciava indietro tutto il superfluo, saltava le stazioni della vita, non perdeva tempo ad aspettare i sentimenti ritardatari, rifiutava di caricare emotività superflue, non concedeva la precedenza ai valori in sosta al passaggio a livello, ma sfrecciava e sfregiava.
A un certo punto si fa largo un dubbio. Che ragione ha un treno di mettersi in moto se non per trasportare qualcosa? Senza un carico di valore che senso ha viaggiare? Perché scapicollarsi verso una meta con la stiva vuota, tentando a ogni costo di arrivare per primi?
Sia io che Francesco abbiamo vissuto lo smarrimento della mancanza di senso e, soprattutto, la sensazione alienante di essere in viaggio verso una meta che non arriva mai, e che anzi si allontana sempre di più man mano che la velocità del treno aumenta, man mano che si alleggerisce il carico per sfrecciare più rapidamente, man mano che si trascura il paesaggio per correre senza sosta.
Percorsi di vita che hanno tratti in comune: cosa c’è di strano? In fondo, siamo tutti esseri umani. Vero. Quel che fa riflettere della nostra esperienza è che per trent’anni, io e Francesco abbiamo percorso binari paralleli, anzi per alcuni versi addirittura divergenti, così come parallele e divergenti erano, per moltissimi aspetti, le personalità dei ragazzini di trent’anni prima. Eppure, pur percorrendo le più disparate tratte (la sua carriera ha avuto sviluppi anche entusiasmanti), sostiamo oggi nella stessa stazione. Qui, il tempo ha un valore diverso, appartiene a una dimensione costruttiva, non scorre per cancellare ma si accumula per arricchire, appesantisce il treno di un carico prezioso, lo rallenta fino a rendere il paesaggio distinguibile e non più sfocato dalla velocità. Questo treno non performa, trasporta.
Veniamo al punto di questo articolo. Voglio che ascoltiate la sua intervista alla radio a questo link: https://www.raiplaysound.it/audio/2023/10/Zarathustra…
C’è una bellissima trasmissione radiofonica della Rai. Si chiama Zarathustra ed è condotta da Pietro del Soldà e Ilaria Gaspari, gente che con la voce e con le parole ci fa proprio l’amore, roba di nicchia, come l’amore appunto. In una puntata intitolata Qual è il vero successo?, Francesco ha raccontato il suo viaggio. Dedicatevi mezzora e ascoltatelo anche voi. È molto piacevole, e non dirò altro per non gravare l’ascolto di sgradevoli aspettative. C’è solo una cosa…
Da ragazzini eravamo soliti giocare a calcio per strada come ancora si poteva fare a quei tempi. Il pomeriggio scendevo e citofonavo a casa di Francesco (i telefonini ce li avevano solo in Ritorno Al Futuro). Michela, sua madre, mi rispondeva sempre molto gentilmente che Francesco non poteva scendere perché doveva ancora finire di studiare. Questo mi provocava delusione, anche perché sapevo che lui sarebbe rimasto il primo della classe anche se avesse studiato la metà del tempo. Per molti anni, quando mi è capitato di pensare a lui o di parlare di lui con altri amici, ho sempre avuto la tendenza a ricordare le volte che il dovere e la fame di successo ci hanno tenuti lontani, anziché le volte (comunque tantissime) in cui stavamo insieme e ci divertivamo. Oggi, scopro che è Francesco a “citofonare” ai suoi collaboratori pregandoli di scendere a giocare. Questo mi ha commosso un po’.
Francesco Ortix
CEO ART
Dopo aver conseguito la laurea in Ingegneria Aerospaziale nel 2001 al Politecnico di Milano, inizia la sua carriera lavorativa presso la societa Scysis ltd a Bristol (UK) in qualità di sviluppatore software per il controllo satellitare all’interno del Advanced Technology Group.
Dal 2002 al 2008 ha assunto il ruolo di Project Manager presso l’azienda OHB Italia spa nella business unit “Small Satellite”. In questi anni ha partecipato a progetti internazionali coordinando attività di consorzi industriali di più imprese nel settore spaziale.
Alla fine del 2008 si è trasferito nel gruppo ART presso TEMIS srl per sviluppare il mercato aerospaziale del gruppo. Dal 2011 ha assunto il ruolo di responsabile operativo di ART e dal novembre 2013 la carica di amministratore delegato. Dal 2013 è anche amministratore delegato della società Mate srl, parte del gruppo ART, operante nel settore dei servizi di certificazione prodotti.