Si fa un gran parlare di «povertà educativa». Le nuove generazioni sembrano afflitte da questo morbo incurabile.Il bambino viene privato del suo diritto all’apprendimento, alla crescita, alla formazione educativa, fisica, sociale, emozionale. Negli anni ’90, epoca in cui il termine «povertà educativa» vide la luce, pareva che il malanno affliggesse solo le popolazioni del terzo mondo per le quali esso fu coniato. Errore. La malattia colpisce, in modo diverso e più subdolo, anche le società ricche, opulente, obese e decadenti, come la nostra.
Le cause sono molteplici. Esperti sul campo, educatori, sociologi, psicologi, politici e personalità di ogni genere studiano il fenomeno. Ascoltiamoli. Prima o poi arriveranno a una conclusione condivisa, la quale – nascosta sotto coltri di eruditismo espresso in un linguaggio ormai incomprensibile alla massa di analfabeti funzionali a cui il messaggio è destinato – può essere così semplicemente riassunta: i genitori odiano i propri figli.
Sì, è vero: «odio» è pesante. Ci sono decine di vocaboli che accuratamente interconnessi secondo regole logico-sintattiche ormai in disuso esprimerebbero meglio il concetto. Ma ho deciso di adeguarmi al contesto decadente nella speranza di risultare vagamente comprensibile.
Il fatto è che i genitori non sono semplicemente inadeguati al compito, non sono solo e banalmente all’asciutto di psicologia della crescita, non vagano spaesati nella complessità del moderno, non sono unicamente delle isole emotive sperdute nell’oceano dell’iperstimolazione social. Essi non hanno solo bisogno di una guida, di uno psicologo o dell’ennesimo corso di formazione per imparare a educare. I genitori hanno bisogno di un esorcista, perché il male si è impossessato di loro. Ecco perché: odio.
Certo, si tratta di un odio preterintenzionale, il più delle volte nascosto sotto molti strati di coccole autoreferenziali, effusioni fini a se stesse, concessioni deresponsabilizzanti, regalini a pronta richiesta, dolciumi, shopping, vestitini firmati, soldini. Sembra amore, insomma, ma è odio.
Prima che il loro figlio nasca, i genitori hanno già consumato tutto il verde e quel po’ di natura che ancora era accessibile ai loro tempi. Per esempio, hanno chiuso tutti i passaggi al mare, privando la loro progenie di un bene primario: loro potevano andare al mare in bici, scegliere la spiaggia che volevano, mantenersi in forma, giocare a palla con gli amici, socializzare come fanno tutti i mammiferi e cioè senza l’intermediazione di un telefonino, toccarsi, parlarsi o non parlarsi, fare merenda con pane e pomodoro preparato a casa, magari dalla nonna premurosa, tornare a casa in salute, snelli, muscolosi e felici. I loro figli se vogliono vedere il mare sono costretti a pagare tutto fino all’ultimo centesimo, non fanno un passo perché sin dalla più tenera età si spostano su ruote motorizzate di ogni genere, senza un telefonino non sanno come connettersi con gli altri, mangiano ogni sorta di spazzatura acquistabile, tornano più in carne e più insoddisfatti di quando sono partiti. A palla non giocano più, sono appesantiti.
Hanno colmato le strade di automobili sempre più grandi e inquinanti. Hanno trasformato il paese in un autodromo saturo di esalazioni gassose e acustiche. Prendono la macchina per fare duecento metri, intasando i pochi spazi che i bambini una volta usavano per giocare a pallone per strada. I loro figli si muovono goffamente, come dei pinguini, e l’unica coordinazione psicomotoria che hanno acquisito è quella di inserire la moneta nel self-service h24 per procurarsi la solita merendina confezionata, perché mai e poi mai i genitori rinuncerebbero a qualche ora per cucinare loro (o magari con loro) una torta, dei biscotti, dei taralli.
I genitori però sembrano soddisfatti: anche oggi hanno garantito ai propri figli la quantità di denaro necessaria a fare quello che fanno tutti. In cosa consiste fare il genitore oggi? Guadagnare abbastanza per delegare il proprio ruolo. Si lavora per togliersi i figli dalle palle.
Non potendo liberarsi fisicamente di loro, delegano ad altri il proprio compito. I genitori non fanno che delegare. Il primo e maggior supplente delegato è internet, in tutte le sue forme e con l’intero arsenale di dispositivi al suo attivo. Grazie a smartphone, tablet, smart TV e chi più ne ha più ne metta, gli odiati pargoli apprendono l’arte di fare a meno dei genitori per tutto: educazione, valori, emozioni, gusti. Tutto verrà loro inculcato dalla rete, con gran soddisfazione dei venditori che l’affollano. Ai venditori non importa la salute fisica e mentale dei piccoli, ma è proprio a loro che i genitori affidano i propri figli. Ma come perché?! Perché li odiano! I venditori nell’internet sono i nuovi educatori e ai piccoli insegnano ciò che fa più comodo. Insegneranno, per esempio, che un doppio cheesburger insufflato di grassi saturi e agenti patogeni di ogni genere è certamente meglio del cibo preparato in casa. (Ma che dico? Preparato in casa?! E da chi? Ma se nessuno cucina più nulla! Perdere tempo a cucinare? Fare la spesa? Pulire la verdura? Stiamo scherzando?)
Quando proprio sono costretti a passare del tempo con i figli, lo fanno controvoglia. I bambini non gli arricchiscono la vita: gliela rubano. Rubano il tempo del lavoro (il sacro lavoro!), rubano il tempo libero (il sacerrimo tempo libero!), rubano pure il tempo morto (non posso mai rilassarmi!). Insomma, i figli sono dei ladri, gli rubano tutto ciò che un tempo era la loro vita: una maleodorante sequenza di pezze a colori per mascherare la strisciante infelicità, l’incontrastabile assenza di senso, l’insopprimibile putrescenza di un paniere di valori in disuso, speranze, ambizioni, progetti andati male.
È amore o odio?
È un odio strisciante, mascherato. Sembra amore, ma è disprezzo, distruzione programmata. Solo una profonda forma di ostilità potrebbe portare qualcuno a prendere un bambino sano e condannarlo all’infelicità, alle malattie, alla deformazione fisica e mentale. Eppure, i genitori lo fanno.
C’è un frangente in cui l’odio per i propri figli traspare più evidente: le feste. Per esempio, quelle di compleanno. Le feste di compleanno sono la versione colorata, dolciastra e ricolma di palloncini dei sabba satanici. È il momento in cui si celebra il disprezzo dei grandi contro i piccoli. È il rituale di iniziazione alla babbionaggine eterna.
Tu entri e già vedi che i grandi considerano i piccoli dei poveri scemi senza speranza. Palloncini colorati ovunque (costosissimi, ma irrinunciabili), musica da deficienti sparata a decibel livello jet supersonico, urla scimmiesche a cui nessuno oppone resistenza, strepiti incontrollati da isterismo precoce idiotamente scambiati per felicità infantile, genitori surrogati sotto forma di animatori il cui compito è simulare felicità a caro prezzo, dispensare finzione, tenere occupati dei poveri bambini che neanche in questa occasione godono del privilegio della socialità. Una comunità che dovrebbe riunirsi per «donarsi» empaticamente, socializzare, discutere, volersi bene, si trasforma in una caotica congerie di schizofrenici ululanti, ognuno con la propria solitudine, ognuno recando un regalo industriale per giustificare la sua presenza (col corpo) e la sua contemporanea assenza (col cuore). Se si potesse, qualcuno scambierebbe opinioni, cercherebbe conforto, si confronterebbe, intreccerebbe una qualche relazione. Ma non si può. La cosiddetta musica è troppo alta per parlare. I bambini, fuori controllo e nevrotici come non mai, urlano a squarciagola tutto il loro anarchico abbandono. Ognuno finge di divertirsi per conto suo, ognuno finge che tutto ciò sia la normalità. Tutti soli, tutti insieme, tutti sordi.
Fino a quando…
Arriva la tortammerda! Si possono fare le fotografie, l’inganno degli inganni. Tutti felici, dite cheeeeeese. E lo devono dire perché apparire tristi in foto, essere un minimo sé stessi, è un delitto. Ancora finzione, fatuità, bambini considerati giocattoli, bambolotti usa e getta, indegni di essere trattati con rispetto, scimmiette ammaestrate. Nessuno che li redarguisca, nessuno che li guidi, nessuno che dica loro che gridare come ossessi è patologia in nuce. E poi parte il coro: sguardi ebeti e ugole tumide, le menti amminchionate e improvvisamente interconnesse sotto l’egida della dea demenza, i genitori impartiscono ai piccoli il loro unico insegnamento. Tanti auguri a teeeee, tanti auguri a teeeee… Le distonie del celebre inno sottolineano e (se va bene) concludono la liturgia di glorificazione del mondo scemo dei genitori.
Poveri bambini. Qualcuno dovrebbe salvarli dai grandi.