Avevo tredici anni quando un dolore profondo mi squarciò il cuore. Ancora sanguino.
Il 2 febbraio 1989 sono in classe a scuola, è l’ultima ora, fuori una primavera impaziente. Dietro la cattedra siede la professoressa Castiglione, ricordo un’atmosfera rilassata. Dal corridoio, all’improvviso, disperate urla femminili mi graffiano l’anima di terrore.
La bidella irrompe in classe a un passo dal crepacuore. «È morto!», strepita. «È morto!», ripete. La professoressa si precipita verso la bidella costernata già in preda alle lacrime, senza sapere né poter capire di chi la donna stesse annunciando la scomparsa. L’abbraccia. La notizia, quella notizia, è sufficiente a straziarci ancor prima dei dettagli. Quelli, poi, arrivano a lacerare la carne viva, a girare il coltello nella piaga, a svuotare di significato ogni cosa, a scrivere con la punta di un pugnale sulla pelle tenera una domanda a cui nessuno ha mai dato risposta: perché.
Gaetano e Michele, diciott’anni o giù di lì, amati figli di Trinitapoli, quella mattina libera dagli impegni scolastici decidono di fare un giro in moto, così per ingannare il tempo prima di pranzo, per approfittare quanto più possibile della preziosa gioventù, per stare insieme e godere del vento fra i capelli. Trovano la morte travolti da un camion. Un secondo prima qui con noi, poi chissà dove. Tutti, ma proprio tutti piansero la scomparsa dei due giovani, così insensata, così improvvisa.
La tragedia di Gaetano e Michele mi ha mostrato per la prima volta quanto può essere banale la morte. A volte uno si preoccupa della ferocia, del dolore, dell’ignoto. Macché! È la sua banalità che mi terrorizza. Arriva una donna, annuncia «È morto!», e basta.
Per certi versi, è tutto qui. Ed è tutto così incomprensibile, non c’è niente da vedere. Non c’è un’anima da guardare volar via salutando, non c’è un percorso di preparazione, non c’è un manuale delle istruzioni. Quello che si sa della morte lo vediamo attraverso gli occhi di chi ci sta vicino, le grida di dolore, le lacrime che finiscono, la luce del sole che non ne vuole più sapere di brillare.
Il dramma di Gaetano e Michele è un paradosso che mi accompagna ancora oggi. Li conoscevo, ma non benissimo, per via della differenza di età. Loro hanno cominciato a vivere dentro di me proprio nel momento in cui hanno cessato di esistere nel mondo.
Le loro fotografie mi hanno fatto compagnia per tutto il periodo della Gifra. In oratorio erano lì a sorvegliare le partite di ping pong, quelle di biliardino, forse portavano il punteggio e forse, chissà, tifavano per me. In quella foto Michele è poggiato su una Vespa bianca e, vi giuro, con gli occhi mi guardava e mi diceva: «Ricordati di me, di ciò che mi è accaduto.»
Da quell’assolato febbraio del 1989 in poi, la storia di Gaetano e Michele si è ripetuta tante, troppe volte. C’è stato un momento tra infanzia e adolescenza in cui non passava estate senza che la strada pretendesse un tributo di sangue. Trinitapoli è punteggiata da macchie di dolore sepolte e mai esauste, di genitori depredati, di famiglie percorse dal rivolo subdolo della disperazione, di lacrime nascoste nelle notti solitarie.
Oggi ho 45 anni e sanguino ancora per Michele e Gaetano e per tutti quelli che mi hanno lasciato con una domanda a cui nessuno ha mai dato risposta. Passano anni e magari sembra finita. Poi, arrivano giornate come quella di ieri e riparte tutto daccapo.
Massimo e Rocco li conoscevo. Non eravamo amici, non ci siamo mai frequentati, magari abbiamo scambiato due chiacchiere qualche volta e siamo stati compagni di squadra al calcetto. Conta? Non conta nulla.
Questi due ragazzi, come tutti gli altri che se ne sono andati all’improvviso, conservavano di me una parte importante, la mia immagine s’era riflessa nelle loro pupille almeno una volta. Ora la scintilla è spenta e quella piccolissima parte di me che era conservata nella loro anima è volata via. In una risata con gli amici, Massimo e Rocco custodivano quel briciolo di felicità tutta mia, quella mollichina che serve a comporre il grande quadro delle nostre vite, ché senza la felicità degli altri non prende mica il volo. Erano giovani, cazzo, giovani, giovani, giovani, e non è giusto, e non ha senso.
La morte di Massimo e Rocco mi ha pugnalato ancora una volta. Ancora una volta le urla angosciate della bidella hanno risuonato nella mia mente. Di nuovo lo sconforto della perdita mi ha fatto visita come quando avevo tredici anni, e non è cambiato niente. Due giovani, una moto, la strada, la libertà, la felicità e, poi, senza una ragione, il silenzio.
Addio ragazzi.