Ha suscitato molto interesse, diventando virale, il video di quella giovane ingegnera che parlando ai commensali racconta di aver rifiutato un’offerta di lavoro retribuita con 900 euro mensili lordi e invita la sinistra a smetterla di abbassare l’asticella. Ascoltatelo a questo link. In un minuto, la ventisettenne Ornella Casassa dice tutto ciò che la sinistra dovrebbe dire per riconquistare il suo elettorato. Il problema è che le cose che dice l’ingegner Casassa la sinistra non le dice semplicemente perché un partito di sinistra non esiste più.
In Italia, e non solo, esiste una sinistra popolare incredibilmente corposa che al momento non è rappresentata da nessuno. Esistono milioni di persone di sinistra senza un partito. L’astensionismo alle ultime politiche è indicativo. Il PD non è più da tempo un partito di sinistra. Le politiche del lavoro portate avanti dal PD negli ultimi anni sono di stampo prettamente neoliberista. La destra è la destra (della peggior specie, tra l’altro). Poi ci sono tutta una serie di microcosmi rossi pressoché insignificanti. Sono partitini “intimisti”, si occupano dell’anima, dei sentimenti, delle sensibilità, di tutto tranne ciò che serve alle masse lavoratrici e sfruttate che dovrebbero costituire il loro elettorato. Sui temi essenziali (vedi la guerra) la vedono come Fratelli d’Italia e PD con l’unica differenza che invece del tricolore sventolano l’arcobaleno. Nella sostanza, missili a tutta forza.
Il popolo di sinistra non trova voce neanche sulla stampa. Non è passato molto da quando su tutti i più importanti giornali viene riportata la notizia di quella operatrice scolastica napoletana che trova lavoro a Milano e fa la pendolare anziché trovare casa sul posto perché lo stipendio non basterebbe (Link). La notizia, di fatto, era falsa. Ciò che conta, però, è come la tizia viene dipinta dai giornali: un’eroina moderna, una che dimostra a noi sfaticati incapaci come si fa a campare, noi piagnucoloni che ancora vogliamo passare la vita sulla terra ferma con la famiglia anziché sul treno con degli sconosciuti. Pensa un po’ come siamo antiquati e scansafatiche! Lei invece, la viaggiatrice, è un esempio, un modello da imitare, uno stimolo per smetterla di piangerci addosso.
Il digital creator Stefano Maiolica sul suo sito instagram unterroneamilano cura una rubrica di grande interesse che ha brillantemente battezzato Aff(L)itti a Milano. Documenta come i lavoratori e gli studenti fuorisede a Milano siano costretti a sopportare costi esorbitanti per locali indecenti, pur di poter lavorare o studiare. Monolocali di 14 (quattordici!) metri quadrati alla modica cifra di 700 euro mensili; stanzette di una decina di metri quadrati a 900 euro. Roba così, insomma. Le interviste si concludono sempre con la stessa fatidica domanda: «Perché lo fai?». La risposta è quasi sempre la stessa: «Per inseguire il mio sogno». E quale sarebbe questo sogno così grande per cui è legittimo sopportare l’insulto di vivere per anni in una topaia indegna? Avete indovinato: i soldi! Quanti sognatori diventano ricchi? Pochissimi, o nessuno. Quanti sognatori, nel frattempo, vivono dentro un incubo? Tantissimi, o forse tutti.
Siamo matti da legare, questa è la verità. Siamo ormai convinti che la felicità, che il senso stesso della vita, passi necessariamente attraverso il denaro e siamo disposti a tutto per procurarcelo. Nel contesto occidentale, il denaro non è un mezzo per sostentarsi mentre si vive, è la vita stessa, il significato ultimo di tutto. Non possederne significa non valere niente. E se uno pensa di non valere niente, alla fine finisce per convincersi che in fondo in fondo si merita di vivere in una topaia.
Attribuendo al denaro (e al potere, e al falso mito della carriera, e al concetto vacuo di realizzazione) il ruolo di stella polare delle nostre esistenze, ci siamo resi schiavi dei nostri incubi peggiori. Siamo prigionieri di noi stessi, viviamo costantemente l’angoscia di non essere all’altezza delle aspettative che misuriamo in dollari ed euro. E quando a costo di sacrifici inusitati qualcuno riesce magari anche a guadagnare abbastanza da potersi ritenere soddisfatto, l’angoscia lascia il posto all’oppressione della mancanza di senso o alla vacuità di vite trascorse ingrassando la pancia senza nutrire l’anima. E quel grasso lo scambiamo per il benessere della libertà. Libertà di fare o essere cosa? Un ingranaggio, microscopico, non essenziale, sconosciuto a se stesso e ai propri cari, ricco di denaro forse, ma trascurabile umanamente.
Lo storico Salviano, scrittore gallo-romano del V secolo, racconta che gli aristocratici romani grandi proprietari terrieri (i capitalisti dell’epoca) non si spiegavano perché i contadini al servizio dei loro latifondi preferissero abbandonare le terre, varcare il confine e cercare riparo presso i barbari popoli germanici, dove sarebbero stati trattati come servi. Salviano dice che questi contadini, formalmente liberi, si erano stufati dei sacrifici a cui i padroni li costringevano cullandoli nel sogno del benessere e della sicurezza. A un certo punto essi aprirono gli occhi e preferirono «vivere liberi sotto una parvenza di prigionia che vivere prigionieri sotto un’apparenza di libertà» (De Gubernatione Dei V, 5).
Nel XIX secolo, il nobile prussiano August von Haxthausen, in navigazione sul Mar Nero, raccontava che sei bellissime donne provenienti dalla Circassia (una regione della Russia) erano state trovate a bordo di una nave ottomana che le trasportava al mercato di Costantinopoli per essere vendute come schiave. Una nave da guerra russa intercettò il mercantile e liberò le donne, alle quali fu chiesto che sorte preferissero. Il generale russo annunciò alle ragazze che potevano scegliere se ritornare in patria o seguire il nobile prussiano in Germania dove sarebbero state donne libere. Le donne all’unisono implorarono: «A Costantinopoli, per essere vendute!». Furono così restituite agli ottomani. Quelle donne sapevano bene che la schiavitù presso un ottomano (e cioè burqa, harem, segregazione, ma anche cibo e soddisfazione di ogni necessità) era preferibile alla libertà di essere delle straccione affamate in un luogo civile ed evoluto quale era percepita la Germania dell’800.
Tornando alla contemporaneità, noi siamo ciò che Gustavo Zagrebelsky definirebbe «liberi servi» (Liberi Servi, Il Grande Inquisitore e l’enigma del potere, Einaudi, 2015). Formalmente siamo esseri umani liberi di determinare il proprio destino, in pratica siamo schiavi dell’idea che, affinché abbia un senso, la nostra vita debba essere sacrificata alla perpetua ricerca di una realizzazione materiale ottenuta attraverso il denaro, da conquistare a qualsiasi costo. Aspettando di arricchirci, viviamo nelle stalle, ci abbrutiamo nella competizione, ci inaridiamo col superfluo. E poi, però, critichiamo gli altri perché vivono «sotto un regime opprimente».
Se non viene fuori subito un partito veramente di sinistra, faremo la fine delle schiave circasse. E ci piacerà, pure, perché non c’è regime più opprimente della miseria.