Dopo l’ennesimo post su Facebook di lamentele per gli incendi e l’aria irrespirabile a Trinitapoli, un mio amico d’infanzia emigrato in gioventù, preoccupato in vista del ritorno nel suo paese natale per un breve periodo di vacanza, mi ha scritto: «Ma di cosa puzza?».
«Puzza di fallimento», gli ho risposto.
Vent’anni fa, quelli della mia generazione hanno dovuto fare una scelta: emigrare alla ricerca di un lavoro e un reddito adeguato, oppure restare a Trinitapoli e combattere per far progredire il paese. Se penso alla mia classe del liceo, quelli che hanno deciso di restare sono pochissimi e per quanto ne so nessuno è diventato Bill Gates, ma neanche l’autista di Bill Gates, ma neanche il fattorino di Bill Gates. La posizione di molti di coloro che se ne sono andati, invece, è solitamente migliorata.
Ciò nonostante, in tutti questi anni, la scelta di rimanere non solo non ci è pesata, ma di essa abbiamo fatto una bandiera, un punto d’orgoglio. La voglia di lottare, di non trascurare le radici, l’attaccamento alla tradizione e la prospettiva di un progresso civile conforme a quello che tutta l’immagine della Puglia ha ricevuto negli ultimi vent’anni è stata una motivazione forte. La Puglia nel suo complesso, infatti, ha fatto passi da gigante: siamo sulla bocca del mondo intero, il turismo è cresciuto in quantità e qualità, siamo la culla di interessanti progetti imprenditoriali.
Tutto questo, però, ha riguardato altre zone. La nostra è sprofondata in un baratro inimmaginabile.
Con la costa che ci ritroviamo avremmo potuto ospitare turisti di lusso da tutto il mondo e invece abbiamo le baraccopoli in riva al mare, l’accesso alla spiaggia vietato da una miriade di impossessamenti violenti, collegamenti fatiscenti e pericolosi, il mare spesso colorato della merda che ci scarichiamo dentro abusivamente.
Con le risorse del terreno avremmo potuto avere uno dei distretti agricoli più invidiati del mondo, e invece abbiamo piccoli fazzoletti frammentati e condotti con tecniche che non usano più neanche in Africa, inquinanti, benzina agricola, tubi di plastica, veleni e concimi chimici imballati in sacchi di plastica che vengono bruciati a fine giornata, contenitori di polistirolo che fanno la stessa fine e, soprattutto, una manodopera di immigrati africani invisibili che vivono in una bidonville fatiscente alle porte di Foggia, senza documenti, senza riconoscimenti, senza un presente e senza un futuro, discriminati, sottopagati, sfruttati.
Con una delle zone umide più estese e ricche di biodiversità d’Europa potremmo dar vita a un settore turistico da fare invidia a Yellowstone, e invece lo deturpiamo, incendiamo, coltiviamo, inquiniamo, sotterriamo carcasse.
Trinitapoli è percorribile in venti minuti a piedi da un estremo all’altro, una passeggiata neanche troppo lunga. Eppure, il paese è sommerso da una quantità di macchine, scooter e macchinine da fare spavento. Ma dove cazzo andate con tutte queste macchine?! Un traffico che farebbe supporre un tessuto economico florido e che invece denuncia solo il pozzo di inciviltà in cui siamo sprofondati.
Macchinine lanciate a tutta velocità tra la folla o in piena notte, con il volume della musica così alto che fa tremare le finestre, auto parcheggiate in doppia e tripla fila davanti alla posta: un luogo raggiungibile da tutto il paese in dieci minuti a piedi sommerso da veicoli parcheggiati tutti in divieto di sosta per farvi scendere goffamente gente imbolsita dalla sedentarietà. E mai, mai, ripeto mai una multa.
Se per un attimo provassimo a guardarci dal di fuori a considerare che cosa siamo stati capaci di fare a questo territorio nel giro di pochi anni, resteremmo impressionati. La comunità internazionale dovrebbe prenderci e deportarci per salvaguardare quel che rimane di una terra un tempo piena di fascino e che oggi è diventata una discarica a cielo aperto, puzzolente, inquinata, caotica, incivile, popolata da obesi inquinatori compulsivi.
Le conosco le critiche.
«Eh, ma tu così vuoi il male del paese! Eh, ma così tu fai scappare i turisti. Eh, ma così tu dai un’immagine ingenerosa di una comunità. Eh, ma questa situazione non riguarda solo Trinitapoli.»
A queste critiche rispondo che se i turisti scappano non è perché glielo dico io, ma perché quando arrivano sentono puzza di fallimento, la stessa puzza che sentono quando tornano i fratelli che se ne sono andati vent’anni fa. È vero: questa situazione non riguarda solo Trinitapoli. E con ciò? La pillola è meno amara?
DI chi è il fallimento? Della politica? Delle amministrazioni?
Su questo ho la mia idea chiara. Certamente la politica e le amministrazioni hanno la loro fetta di responsabilità, ma i politici non vengono dalla luna. Essi provengono da quella stessa società civile che li critica, è stupido e controproducente liberarsi delle proprie responsabilità addossandole solo ai pochi che, bene o male, decidono di mettersi in gioco. C’è chi ha fatto peggio degli altri, ognuno giudichi da sé. Per quanto mi riguarda io ho sotto gli occhi un fallimento ben più grande: il mio, che per il mio giovanile attaccamento alla mia terra, costringe oggi i suoi figli a respirare la puzza del fallimento civile di un’intera comunità.