Chi è Savino Sarcina? Nato a Trinitapoli nel 1941, ha incominciato a imparare il mestiere di falegname all’età di 7 anni quando, al mattino, frequentava con grande profitto le elementari. Presa la licenza, la maestra Tedeschi tentò invano di convincere i suoi genitori a fargli continuare gli studi ma la loro condizione economica non prevedeva studenti in famiglia.
Savino a 12 anni lasciò la bottega per lavorare in campagna. In seguito, dopo aver sposato a 17 anni la sua ragazza in attesa di un bambino, inizia il suo lavoro di operaio nell’azienda di Francesco Di Leo dove in seguito diventerà il capo fabbrica e metterà a frutto la sua competenza dei processi di lavorazione del prodotto e della relativa strumentazione. Su sua iniziativa si introdusse nello stabilimento la lavorazione artigianale del “carciofotto” che poi veniva inscatolato a Piacenza per la Nestlè. Ha avuto sette figli e otto nipoti dai 4 figli sposati.
Dalla sua biografia si comprende che è stato molto precoce sia nel lavoro che nelle responsabilità familiari. Nella lista di “croci e delizie”, che tutti hanno nella propria vita, quali posizionerebbe in cima?
R.: La perdita di uno dei miei figli è stata dura da sopportare. È qualcosa che va al di là delle naturali difficoltà della vita. Ma ho avuto anche la soddisfazione di avere un figlio che esercita la professione di medico a Bologna. Per uno come me, che ha sempre desiderato studiare, è una benedizione!
Mi è capitato di intervistare un agricoltore che ha il suo stesso cognome. Come è possibile individuare velocemente la sua famiglia nel lungo elenco dei “Sarcina” trinitapolesi? Ha un “soprannome”?
R.: Certamente. Il soprannome fa parte della storia di una famiglia ed è un appellativo legato a particolari caratteristiche individuali che riassume pregi, difetti, provenienza ed eventi di una persona. Si va perdendo l’uso di questa “anagrafe popolare” che invece andrebbe maggiormente valorizzata. Il mio cognome è accompagnato da “Senza becch”, due parole che racchiudono un pezzo importante della vita di mio nonno. In passato, a Trinitapoli, usava farsi crescere la barba dopo la morte della propria moglie. Mio nonno si rifiutò di farlo e per questo fu definito “senza barba” che, attaccata al mento, assumeva la forma di un becco. È così che l’anonimo “Sarcina” prende vita ed un interlocutore apprende subito “chi sei e a chi appartieni”, come si usa dire nel nostro bel dialetto.
Della sua esperienza di “capo fabbrica”, cosa ricorda con maggiore piacere?
R.: Sono stati 42 anni di fatica ma anche di crescita professionale e di opportunità di trasmettere agli altri quanto il lavoro mi ha fatto apprendere. In Puglia fui mandato nel 1968, come esperto, a Mesagne per impostare la lavorazione dei carciofi e poi a Foggia dove si inscatolava per la Saclà. Ho avuto l’onore di essere invitato dalla ditta peruviana “Virù”, a 500 km da Lima, la capitale del Perù. Sono stato là tre mesi per organizzare tutta la lavorazione del carciofo su dei macchinari nuovi che avevano acquistato. In seguito sono andato anche in Egitto dove ho insegnato ad inscatolare i carciofi come facciamo in Italia, cioè prima “scottandoli” e poi lavorandoli. In Egitto, invece, il prodotto veniva lavorato “a crudo”.
Dopo aver avuto una vita lavorativa così piena di impegni e responsabilità, come trascorre ora le sue giornate da pensionato? Le manca il lavoro?
R.: Mi manca molto il lavoro. Però mi sono riempito la giornata con attività che prima non svolgevo per mancanza di tempo. Innanzitutto, aiuto molto in casa. La mattina preparo per la mia famiglia la colazione, poi prendo la lista da mia moglie e vado a fare la spesa. Alle 11.30 mangio un po’ di frutta, ascolto i “comunicati” alla televisione, preparo la tavola e dopo pranzo aiuto a sparecchiare. Dopo la “pennichella” mi dedico ai miei amati cruciverba e frequento con regolarità la chiesa della Madonna di Loreto, essendo membro dell’Azione Cattolica. Non so cosa significa la noia perché sono sempre incuriosito da tante cose. Non si smette mai di imparare.
Molti dei suoi coetanei ripetono spesso che “la vecchiaia è una carogna”. In che modo riesce a contestare questa affermazione?
R.: Non vivo di nostalgia! Quando sento qualcuno che parla dei “bei tempi antichi” mi faccio una risata perché non si può rimpiangere un periodo di fame e di miseria. Forse si rimpiange la forza e l’energia della gioventù ma non i problemi che i giovani di un tempo avevano e che ancora oggi hanno. Le malattie, poi, arrivano sia ai giovani che ai vecchi. Inoltre bisogna cercare di fare sempre qualcosa per gli altri. Io sono Presidente del Comitato della Festa Patronale di Trinitapoli. Era già scritto nel mio giorno di nascita: 10 dicembre, festa della Madonna di Loreto! Ogni anno mi siedo davanti alla chiesa con il mio banchetto per raccogliere le offerte dei cittadini che vogliono, come me e tanti altri, mantenere la tradizione di una festa di popolo. Riusciamo a mettere insieme più del 50% dei costi della festa. È un rito che dà il senso della continuità, che consente di onorare la propria Patrona e di incontrare amici e parenti che non vivono più a Trinitapoli. Nelle serate buie della vita qualche viso, per un attimo, si potrà illuminare ricordando le luci dei fuochi d’artificio, l’emozione della processione e la musica che proviene dalla cassa armonica. Si è felici e in pace con se stessi spargendo solidarietà e speranza.
ANTONIETTA D’INTRONO
VIA: Corriereofanto