Chi è Francesca De Pasquale, detta Cecchina? Francesca De Pasquale è nata a Trinitapoli nel 1933. Figlia di contadini, si è sposata con Nicola Catalano, coltivatore diretto, ed ha avuto 3 figli, 6 nipoti e 1 pronipote. Ha affiancato il marito nella conduzione dei terreni di famiglia ed ha diretto e soprattutto “animato” un deposito di prodotti agricoli.
Negli anni questo luogo è diventato una sorta di meeting place, un’occasione di incontro di frotte di amici e parenti che apprezzano frutta e verdura per qualità, freschezza e battute di spirito comprese.
Il 22 aprile scorso è stata ricordata in tutto il mondo “la giornata della terra”. Che spazio ha occupato “la terra” nella sua vita?
R.: Vuole dire che spazio occupa “tuttora” nella mia vita? La terra per me è qualcosa di sacro. È una sorgente da dove sgorgano i fiori, le piante, gli alberi, i profumi, i colori delle stagioni, i sapori dei frutti e, per essere materiali, anche i soldi per campare. La terra non è solo fatica ma è anche “bellezza”, “equilibrio”, “speranza”. Se fossi dottore prescriverei il lavoro nei campi come cura per la malinconia, la noia e la paura del futuro. La terra “non tradisce mai” se la curiamo e la rispettiamo. Quando arriva una grandinata o una gelata, bisogna “farsene una ragione”. Sia fatta la volontà del Signore! Ma la terra è come la vita: dopo la malannata tutto ricomincia, piano piano, a rifiorire e a crescere. Ci vuole pazienza. Molta pazienza!
La sua famiglia di origine aveva lo stesso attaccamento alla terra?
R.: Sono figlia di agricoltori. La Madre Superiora delle suore di S. Vincenzo dette l’incarico ai miei genitori di coltivare l’ampio terreno che circondava il convento di Trinitapoli.
Nel secolo scorso non c’erano costruzioni che si affacciavano su via Napoli, sull’estramurale e su via Martiri di via Fani. C’erano soltanto orti. Mio padre impiantò, infatti, un grande orto e gli ortaggi che ne ricavava venivano divisi tra le monache e la nostra famiglia.
Tutti davamo una mano sia nella raccolta che durante le operazioni di innaffiatura.
L’acqua veniva tirata su da un pozzo che aveva una ruota idraulica mossa da un mulo che girava intorno. Si utilizzava la noria, cioè il mulino ad acqua prima dell’arrivo dell’elettricità. Ora è tutto meccanizzato e si “suda” di meno.
La nascita dei figli, le faccende domestiche e le innumerevoli problematiche familiari l’hanno allontanata dai campi in un periodo storico in cui non esistevano ancora strutture pubbliche di supporto al lavoro femminile?
R.: Una donna, con tutto il rispetto per gli uomini, riesce sempre ad organizzarsi e a cavarsela anche nelle situazioni più difficili. Ho aiutato mio marito a portare avanti l’orto, il vigneto e il frutteto in contrada Serrone, da dove ricavavamo i prodotti che poi venivano portati ai mercati generali. “Campagna e famiglia”, sono state le mie parole d’ordine. Ho continuato a gestire tutte le attività economiche e familiari soprattutto quando il mio Nicolino si è ammalato. Ora mi aiuta uno dei miei figli che ha scelto di fare questo mestiere. Ma sono sempre io che do un occhio. Le donne sono più “economiste” mentre gli uomini sono di “manica larga”. So io che significa far quadrare il bilancio di una casa. Se penso a tutte le “mangiate” di cardoni (già puliti e pronti per cucinare) che ho regalato per avere in cambio qualche prestazione gratis! Ne ho fatti di sacrifici, perciò non mi viene per nulla facile fare sconti!
Suo marito è morto dopo 67 anni di matrimonio condivisi, giorno per giorno, in casa e nel lavoro. La solitudine le pesa molto dopo aver trascorso una vita così tumultuosa?
R.: La morte di Nicolino è una ferita aperta. Grazie a Dio, però, “solitudine” è una parola che non mi appartiene perché sono circondata da figli, nipoti, “commare” e amici. Sono sempre occupata a preparare parmigiane e dolci per accontentare tutti!
Quale consiglio si sente di dare ai suoi coetanei e a tutti i lettori per affrontare la vecchiaia con la serenità che traspare dai suoi occhi?
R.: Innanzitutto non piangersi addosso. Ricordate: i “lamentosi” si creano il vuoto intorno con le proprie mani.
Inoltre, io ho una specie di talismano magico che mi aiuta a non pensare alle cose tristi. Sono i boccacci, boccaccini e boccaccetti che io riempio di conserve. Le mie specialità sono la “mostarda”, la marmellata di uva, la “composta” di melanzane e di peperoni, e poi i carciofini, i pomodori secchi, le carote e le zucchine sott’olio extravergine di oliva che preparo anche di notte per la famiglia e per gli amici che, durante le feste, vogliono regalare “il profumo” di Trinitapoli (l’amàur du Casoil) ai compaesani che vivono al nord. Faccio ancora il pane in casa perché quello comprato fa la “muscisca” in bocca, cioè diventa come la “gigomma”. Continuerò sempre a lavorare sino a quando non mi chiamerà Nicolino mio. Mo, però, deve aspettare un altro poco perché ho bisogno di aiutare mio figlio Stefano!
ANTONIETTA D’INTRONO
VIA: Corriereofanto