Chi è Francesco Sarcina, detto Franchino? Nato nel 1938, dopo la licenza elementare, iniziò a 11 anni ad andare in campagna dove raccoglieva le olive che rimanevano a terra per comprarsi il castagnaccio, una leccornia per i bambini del dopoguerra.
A 16 anni imparò nelle proprietà di Don Eugenio Di Fidio “l’arte” della potatura. Era un periodo di miseria nera e talvolta sua madre regalava al curatolo “bocconotti e sfogliatelle” nella speranza di fargli avere una giornata di lavoro. Concluso il suo apprendistato, diventò un bravissimo potatore, al punto che a soli 26 anni l’imprenditore agricolo Francesco Di Leo (detto Ciccillo Gizio) gli affidò l’incarico di condurre i suoi vigneti, attività che ha svolto sino al suo pensionamento. Fu il primo ad avviare a Trinitapoli un tendone di uva Italia. Coniugato, ha avuto tre figli e tre nipoti.
Quando è andato in pensione, circa 20 anni fa, ha abbandonato in modo definitivo il suo lavoro in campagna?
R.: Assolutamente no. Sarei morto di malinconia senza respirare l’aria profumata della campagna. Ho iniziato a coltivare a tempo pieno il vigneto che avevo acquistato e l’oliveto che mia moglie aveva portato in dote, un impegno che già svolgevo durante le mie “sopragiornate”. Sono stato abituato a lavorare dall’alba al tramonto, in tutte le stagioni dell’anno, e non ho mai trascurato i miei poderi neanche quando facevo il curatolo all’azienda Di Leo.
I suoi figli continuano l’attività di famiglia?
R.: Ho lavorato tanto per dare ai miei figli quello che io non avevo potuto avere a causa delle difficoltà economiche dell’epoca. Tutti e tre hanno studiato alla scuola superiore e all’università ed ora sia la figlia femmina che i due maschi hanno un ottimo lavoro a Milano e Roma. Sono il mio orgoglio.
Franco Arminio, il poeta paesologo, incomincia una sua poesia con questi versi. “Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento”(….). Si ritrova in queste parole?
R.: Certo, se avessi avuto “le scuole grosse” avrei potuto scriverle io. Considero l’oliveto un po’ come un figlio da crescere. Porto con me le forbici per potare, il serracchio e l’accetta che continuo a molare con la pietra ogni settimana. Sui miei 120 alberi salgo 360 volte all’anno e sui rami faccio dei tagli all’interno (per carità, non all’esterno!) per non perdere la linfa. Conosco la storia di ogni albero, so come curare tutte le imperfezioni, tiro i succhioni a mano, controllo i germogli, rendo i miei alberi belli e maestosi e rimango estasiato quando le loro chiome mi appaiono nella luce del mattino come una scia di cupole verdi: un quadro dipinto con pennelli d’artista. C’è un dialogo aperto con i miei alberi e spesso, tra lo stormire delle foglie, ho l’impressione di ascoltare con il vento parole di affetto. Dall’alto dei loro rami guardiamo insieme il cimitero che confina con il mio podere e penso alla mia grande fortuna. Staremo sempre vicini. Anche quando starò dall’altra parte.
Nessuno le darebbe 81 anni, anche per l’energia e la gioia che trasmettono le sue parole. Ci confessa il segreto della sua “vecchiaia felice”?
R.: Semplicissimo: grande amore per qualcosa e qualcuno (nel mio caso gli alberi e la mia bella famiglia), una vita sana all’aperto, una dieta che i giovani chiamano “mediterranea”, con tanta frutta e verdura, e soprattutto il piacere immenso di mangiare il pane arrostito, i pomodori e l’olio che ottengo dalle olive spremute “a freddo” sotto i miei occhi. Vi assicuro, una squisitezza!
Ha ancora qualche desiderio nascosto per il futuro?
R.: Uno non proprio nascosto è quello di riuscire a curare i dolori alle ginocchia che hanno deciso da qualche tempo di fare sciopero. Non rinuncerò facilmente a salire sui miei alberi. Mi aspettano fiduciosi.
E poi ci sarebbe la musica. Mi piace l’opera lirica. Molti dei miei tenori preferiti sono morti, ma anche se noi anziani melomani usiamo dire: “morto Francesco Tamagno, morto l’Otello”, spero sempre che nasca un nuovo Pavarotti.
ANTONIETTA D’INTRONO
Via: corriereofanto.it