Chi è Raffaele Di Biase? 43 anni, si è laureato in Giurisprudenza all’Università Cattolica di Milano. Sposato, con tre figli, svolge la professione di avvocato. Da ragazzo ha suonato e cantato con il suo complesso musicale, ha maneggiato colori e pennelli ed ha recitato in compagnie più o meno amatoriali “calpestando” il palcoscenico con la disinvoltura di un attore consumato.
Poco più che ventenne ebbe l’incarico, durante una rassegna di promozione della lettura, di presentare ad un pubblico di giovanissimi il libro che maggiormente lo avesse coinvolto. Accompagnato da una suggestiva base musicale, scelse di parlare del romanzo “Cecità” di Josè Saramago. La reazione fu clamorosa. I presenti non solo lessero il libro ma divennero dei grandi estimatori dello scrittore portoghese al punto che, quando morì nel 2010, ne scrissero l’elogio funebre su un manifesto pubblicato sul Peperoncino Rosso. Teorico dell’ozio inteso come produttore di felicità, sostiene di avere un unico hobby, quello del “tentativo”.
Molti giovani diplomati oggi scelgono di iscriversi ad università del centro e del nord d’Italia ma sono sempre più numerosi coloro che decidono, dopo la laurea, di andare altrove nel mondo. Il loro paese di origine perde energie fresche, competenze ed idee innovative. Chiedo a chi è stato anche impegnato politicamente per qualche tempo: cosa faresti con una bacchetta magica per far nascere e morire la gente in Puglia?
R.: L’uomo insegue la felicità molto spesso spostandosi e cercando una nuova casa. Qualche volta, emigrare è semplicemente una scelta per raggiungere un nuovo stato mentale. Molte altre, purtroppo, è una necessità imposta dalle insoddisfacenti condizioni socio-economiche del contesto in cui si è nati. Il fenomeno migratorio nel meridione non è semplicemente il frutto della voglia di esplorare. Il più delle volte, anzi, è causato da condizioni di vita sfavorevoli. Devo confessare, tuttavia, che non è fra gli aspetti che ritengo più preoccupanti. Come dicevo, l’uomo ha sete di conoscenza e di felicità: è una tendenza inestinguibile.
Non è detto che migliori condizioni di vita assicurino un maggiore radicamento. Per dire: la “benestante” Carola Rackete ha preferito impegnarsi per gli altri e condurre una vita disagiata, piuttosto che sfruttare le proprie origini fortunate. E come lei tanti altri. Piuttosto, mi soffermerei a riflettere su ciò che noi, come essere umani, siamo giunti a ritenere “soddisfacente” o “insoddisfacente”. C’è un dato di fatto che va tenuto in considerazione: il luogo che molti dei nostri giovani emigranti lasciano perché ritenuto insoddisfacente, è invece ritenuto più che soddisfacente per molti immigrati da zone svantaggiate, zone di guerra, zone con poca attenzione ai diritti, etc.
Forse siamo così fortunati da aver dimenticato l’essenziale per farci affascinare dal superfluo. Se avessi la bacchetta magica, donerei a ciascuno una lente miracolosa in grado di smascherare il superfluo. Cioè, donerei una biblioteca e tanta voglia di leggere.
“C’era una volta un uomo che, avendo perso la chiave di casa in qualche anfratto della sua stanza, si mise però a cercarla in strada adducendo questa giustificazione: qui fuori c’è più luce, è più facile cercare”. Molti ricadono in questo errore innumerevoli volte. Ritieni che questo piccolo e antico racconto islamico sia maggiormente calzante per il sud?
R.: L’inganno della “via facile” non risiede in un luogo specifico. Però Gabriel Garcìa Marquez vedeva un parallelismo tra la bellezza del sole del sud e la tendenza a sfruttare la sua luce per cercarvi di tutto, dalla felicità al denaro, dal benessere all’umanità, dal diritto alla giustizia, dalla ragione alla verità. La luce calda del sud è una consolazione per tutti quelli che hanno la fortuna di goderne, ma può diventare una condanna. Avere una medicina per l’anima così a portata di mano, rammolisce. Questo è quello che pensava il premio Nobel Marquez. Chi sono io per contraddirlo?
“Non sprecate la vita nel consumismo, trovate il tempo di vivere per essere felici.” ( José Mujica). Riesci a trovare il tempo per essere felice? Che idea hai della “felicità”?
R.: Ognuno ha la sua idea di cosa sia la felicità. A prescindere da cosa essa sia esattamente, io uso distinguere tra i “cercatori” e gli “osservatori”. I cercatori sono quelli che ritengono di poter essere artefici della propria felicità: attraverso il lavoro, la cura degli affetti, l’impegno, la costanza o, perché no, lo svago, essi si sentono in grado di crearla. Gli osservatori sono quelli che pensano che per essere felici sia sufficiente avere il tempo di fermarsi ad osservare la bellezza che li circonda, il miracolo della vita, la tenerezza dei propri cari, la varietà dei colori. È evidente che José Mujica sia un osservatore, il quale pensa che, avendone il tempo, ognuno possa essere felice.
Per quanto mi riguarda, per la ricerca della felicità mi affido all’esempio dei miei figli. Quando devo correre al lavoro, mi avvicino a Michele e dico: “Mi dai unbacetto?” Lui risponde: “Papà, non mi scocciare!” Fernando, invece, mi riempie di baci senza sosta e senza richiesta. Ma se per caso capita di stare a casa, in silenzio, senza far nulla di strano, senza fretta, in oziosa attesa, ecco che avviene il miracolo: Michele si avvicina, mi prende le guance e mi dà tanti di quei baci da non poterli contare. Con i miei figli bisogna avere il tempo di osservare: senza questo tempo ozioso raggiungere la felicità sarebbe impossibile.
Pigrizia, fatalismo o “il canta che ti passa” di noi meridionali sono gli ostacoli che ci impediscono di competere con i nostri connazionali del nord che corrono trafelati verso l’obiettivo di “ottimizzare” i tempi?
R.: Questa è una domanda da “cercatori” di felicità. Presuppone, cioè, che la felicità sia qualcosa di raggiungibile e non semplicemente osservabile e che al nord sappiano rincorrerla ottimizzando i tempi, mentre al sud pigrizia e fatalismo condannino le generazioni all’infelicità. Non ne farei una questione geografica, ma filosofica. Nell’ottica di un osservatore, l’ozio è l’unica vera via per la felicità. È vero che non si campa d’aria e che qualcosa bisogna pur fare. D’altra parte, la moderazione è una delle modulazioni più importanti dell’otium: esso non nega la nobiltà del lavoro, ma suggerisce, attraverso il tempo produttivo della riflessione, di ponderarne la sua corretta influenza nella vita di ciascuno di noi.
Abbiamo, però, completamente perso questo tempo per la riflessione, sia al nord che al sud. La cultura “iperconsumistaimperante” fa presumere agli uomini che il possesso sia un viatico per la felicità. E poiché in linea teorica il lavoro è essenziale per ottenere i mezzi (denaro) di acquisizione dei beni, esso finisce per diventare l’unica via per il raggiungimento della felicità nell’epoca del “Dio Consumo”. Forse è il caso di venir fuori da questo equivoco.
Se è vero che la felicità può essere solo osservata, ne consegue che “ottimizzare” il tempo significa concedersi momenti di pausa, di contemplazione. Questi momenti confliggono con la cultura capitalista dell’iper produzione e dell’iper consumo, la quale, essendo maggiormente sviluppata al nord, ce la fa apparire come una caratteristica legata a fattori geografici. In realtà, credo che, ovunque ci troviamo, avremmo bisogno di un tempo ragionevole per il lavoro e di uno altrettanto importante per noi stessi.
ANTONIETTA D’INTRONO