Chi è Savino Russo? Nato nel 1957, proviene da una famiglia povera e numerosa. Trasferitosi a Milano per lavorare, scopre a Brera di avere talento e passione per la scultura. Crea con l’argilla opere che ricordano le sculture raffinate dei templi sacri dell’India, dove ha vissuto per più di 10 anni.
Ha diretto negli ultimi anni molti laboratori d’arte nelle scuole di ogni ordine e grado, sia a Trinitapoli che in altre città. È stato l’autore della bellissima pietra di inciampo dedicata allo studente del Mali annegato nel Mediterraneo e ritrovato con la sua pagella cucita sul petto. L’opera è stata inaugurata ad aprile nel Liceo “Staffa” di Trinitapoli.
La tua vita, attualmente “stanziale”, è stata preceduta da una serie di esperienze di viaggio che, a seconda dei punti di vista, ti hanno fatto denominare “emigrante”, “viaggiatore” oppure “ricercatore”. Come ti definiresti e cosa ci racconti di quella fase itinerante della tua esistenza?
R.: Mi sento un casalino cosmopolita affascinato dall’India e dalla campagna pugliese. Giovanissimo sono andato a Milano dove ho lavorato in una importante panetteria di proprietà della famiglia Pillitteri, un cui membro, Paolo, fu sindaco socialista della città. Consegnavo il pane a domicilio e ricevevo la stima e l’affetto di tutti. Mi piaceva molto il profumo del pane appena sfornato, una sensazione di benessere che ho sempre associato ad un altro odore che sentivo dalle parti di Brera, un effluvio che quando ti entra dentro non ti lascia più: quello dell’arte!
A quell’epoca risalgono sia le mie prime sculture in terracotta che la lettura di Sri Aurobindo, il filosofo e mistico indiano considerato dai suoi discepoli un avatar, un’incarnazione dell’assoluto e, tra l’altro, poeta, scrittore, maestro di yoga, noto anche per il suo impegno politico per l’indipendenza dell’India dagli Inglesi. Ho avuto l’occasione fortunata di conoscere suoi seguaci di alto rango, persone colte, semplici, miti, forti. Strepitosamente sagge. L’India è una terra magica. Ci sono stato la prima volta nel 1993.
Nel 1992 a Milano partecipai ad una mostra collettiva esponendo una decina di sculture in argilla. Le acquistò tutte Marco Van Basten, il famoso calciatore olandese che all’epoca giocava nel Milan. Non ci pensai due volte. Con quella somma di danaro intascata partì alla volta del Tamil Nadu, la vasta regione a sud est dell’India. Feci tappa prima nell’incantevole Pondicherry e poi in tanti altri posti che di notte attraverso ancora in sogno.
Nel corso di un decennio ho visitato l’intero Kerala, i templi sacri dalle raffinate sculture ed infine l’Himalaia.
Sei vissuto tanti anni in India soltanto con il gruzzolo che avevi accumulato con la vendita delle tue opere a Marco Van Basten? Ma quanto pagò le tue sculture questo calciatore olandese?
R.: Non fu una grande cifra: un gruzzoletto. Ma mi è bastato. In India, così come in Italia, si può vivere con poco, se ti accontenti dell’essenziale. Mi liberai dei vestiti occidentali: vestivo all’indiana, mangiavo all’indiana, dormivo all’indiana. Pochi indumenti, una stuoia, un giaciglio, arrangiato alla men peggio. Riso, frutta e legumi. E campavo in pace con me stesso e con chi mi stava intorno. Non parlavo la loro lingua ma con gli indiani ci comprendevamo lo stesso, anche a gesti. Noi meridionali siamo bravissimi a comunicare con le espressioni del viso e con le mani. La solidarietà era di casa.
In un orfanotrofio della città di Tricky mi vennero affidati una cinquantina di bambini, dai tre agli otto anni, ai quali insegnavo a lavorare l’argilla. Mi divertivo molto con loro. Mi chiamavano “uncle Savitri”. Costruì per loro anche un forno a legna dove infornavamo pane, focacce, cipolle, patate e zucchine. I bambini impararono anche a preparare la parmigiana di melanzane. Uno spasso.
Soldi niente, gioia tanta.
Si cerca, nel percorso della nostra vita, di arrivare in cima alla montagna per godere dall’alto una bella vista. È ancora lungo il tuo cammino verso la cima?
R.: Penso di aver raggiunto un piccolo cocuzzolo di felicità. Vivo in campagna con “Mnè”, la mia cagnetta, e 20 gatti che mi considerano un caro amico. Nel grande laboratorio che ho, ogni giorno creo le mie opere con l’argilla che sembra inerte e amorfa ma è viva e sa di eterno. Raccolgo dai campi tanta frutta e verdura come “cicorielle, sivoni e sanapiedi” che cucino con i legumi e mangio da solo in casa dove aleggia sempre il profumo dei fiori di campo e della terracotta. Sarei vegetariano, ma non rifiuto la domenica il ragù di carne che i miei parenti mi offrono a pranzo. Ascolto molto e parlo poco. Si può vivere bene senza andare agli ipermercati e senza possedere l’ultimo modello di telefonino. La felicità viene da dentro e non da qualcosa che è a noi esterna.
ANTONIETTA D’INTRONO