Leonardo Orfeo, per tutti Nardino, riuscì con l’aiuto di un semplice pallone a traghettare un gruppo di ragazzini imberbi al di là del guado adolescenziale.
Scrivere di Leonardo Orfeo e di quel periodo magico che fece seguito al nostro incontro equivale a salire sull’ottovolante della memoria e lasciarsi andare al profluvio dei ricordi.
Ricordi ed emozioni forti che riportano all’adolescenza, fase della vita delicata quanto la trama di un tessuto di lino, nella quale si percepiscono suggestioni ambivalenti, come le prime timide pulsioni ad osare percorsi sconosciuti ed il timore di sbagliare e si agitano, ancora indistinti, gli elementi germinativi della vita che sarà. Tutto questo, calato nei primissimi anni 60, periodo nel quale il modello educazionale si basava esclusivamente su due pilastri, il “permesso” ed il “proibito”. E se in cima alla lista del “permesso” svettava l’impegno scolastico, in cima a quella del “proibito”, manco a dirlo, primeggiava lui, il pallone. Ferocemente avversato dai genitori, dai professori e…dai vigili urbani!
A noi ragazzi, ammaliati da quella piccola sfera perennemente in lotta con la legge di gravità, non rimanevano che le poche occasioni rubacchiate allo studio per tuffarci in improvvisate partitelle con i compagni di sempre. I luoghi del misfatto erano la pineta, l’orto abbandonato nelle vicinanze della Scuola elementare o, in casi eccezionali, il campo sportivo. Quello vero al quale, durante il periodo estivo, si poteva accedere attraverso una breccia nel muro di cinta. Almeno fino a quando non spuntava all’orizzonte la figura caracollante e minacciosa del custode, che suggeriva immediate strategiche ritirate! Partitelle che inevitabilmente si traducevano, una volta a casa, in tremende reprimende, castighi e, a volte, mazzate.
Sì, mazzate, cosa che oggi fa molto ridere i miei nipotini! Premessa indispensabile, questa, a beneficio dei più giovani perché possano comprendere più agevolmente la dimensione straordinaria della figura di Leonardo Orfeo e di come, con l’aiuto di un semplice pallone, traghettò noi, un gruppo di ragazzini imberbi, al di là del guado adolescenziale. Leonardo Orfeo che d’ora in avanti chiamerò semplicemente… Nardino.
Apparso quasi per incanto nella nostra vita (non saprei dire esattamente quando e dove ci siamo conosciuti!), con grande pazienza, tenacia e… sprezzo del pericolo (i genitori arrabbiati lo identificavano come il pifferaio malefico che conduceva i loro pargoli sulla via della perdizione pallonara!) ci permise, dopo i primi timidi approcci, di passare stabilmente dai campetti improvvisati al campo vero. Un sogno, all’epoca del “proibito”! In più, con tanto di maglie, calzoncini e calzettoni, materiale che decisamente aveva vissuto tempi migliori, ma che a noi andava più che bene. Unico problema le scarpe, risolto in attesa di tempi migliori, riciclando quelle “da ginnastica”, buone per l’ora di Educazione fisica, molto meno per l’impegno pedatorio. Le maglie erano rosse con i bordi bianchi, i canonici numeri dall’1 all’11, sul davanti la scritta “Libertas”, i calzoncini di un blu impallidito ed i calzettoni non sempre in tinta.
Ma per noi era già tanto. Anzi, era tutto. In poco tempo, Nardino, sapientemente e non senza fatica, si impegnò a trasformare comportamenti, gesti, scelte di noi ragazzini bravini ma votati alla anarchia tattica… ciascuno giocava per sé… in un gioco di insieme, che avesse una sua fisionomia, una “identità”. Banale, si potrebbe osservare oggi, ma per quei tempi una vera e propria rivoluzione copernicana. Se solo si pensa che il gioco consisteva nel cosiddetto modulo… “palla fai tu…” ovvero palla scagliata il più lontano possibile dalla propria porta nella speranza che qualche compagno potesse indirizzarla verso la porta avversaria! Senza tuttavia snaturare le caratteristiche tecniche di ciascuno di noi, anzi esaltandole con l’attribuzione a ciascuno di un ruolo con compiti e responsabilità precise che prevedevano, a quei tempi, l’interscambiabilità fra i ruoli in funzione degli sviluppi del gioco!
Con l’ambizione dichiarata di realizzare una filosofia di gioco che mirava a fondere tecnica, efficacia, estetica. In definitiva, Nardino riuscì ad inculcare in ciascuno di noi principi quali l’“identità”, la “responsabilità”, la “solidarietà” realizzando, in un sol colpo, l’impresa di addomesticare i nostri istinti giovanili e, soprattutto, di assecondare il nostro desiderio (ambizione?) di emulare i grandi interpreti del calcio di quei tempi.
Il tutto sempre con grande equilibrio, se è vero che ancora oggi molti ricordano (noi per primi) le sue urla belluine quando si indulgeva in preziosismi quali un tunnel o un colpo di tacco! Vestendo a volte i panni del fratello maggiore dialogico ed affabile (poche), a volte quelle del condottiero rude e burbero (molte), ci regalò, a ben pensarci, il coraggio di superare le nostre diversità, di esplorare senza paura i nostri limiti, riuscendo a far sentire ciascuno di noi “importante” in un gruppo di compagni “importanti”. All’interno del quale, competitività e concorrenza furono gestite da Nardino sempre con la giusta dose di severità, sagacia, equilibrio, smussando sul nascere le scaramucce che di tanto in tanto accendevano la nostra convivenza.
È giusto, tuttavia, sottolineare anche il ruolo, non da poco, a mio avviso, al di là delle qualità tecniche, di quelle educazionali del gruppo, sempre rispettoso dei suggerimenti e delle decisioni del Capo. Una visione del calcio innovativa non solo per gli aspetti tecnico-tattici, ma anche per quelli educazionali e, oserei, culturali.
Nardino, infatti, ormai nostro mentore e guida indiscussa, al punto da trascorrere con lui anche gran parte del tempo libero, oltre a svelare una insospettabile vena ironico-umoristica quando commentava i nostri errori, non mancava mai a dispetto dei timori genitoriali di sollecitarci a…studiare! Evidenziando già allora quelle doti di conoscenza, competenza, intelligenza, saggezza e passione, che lo avrebbero portato a diventare il dirigente sportivo più capace che la nostra cittadina, e non solo, abbia mai avuto. La parola “Libertas”, cucita sulle prime maglie, si rivelò una premonizione!
Nardino, con la sua dedizione, con l’amore per il suo progetto, ci stava di fatto regalando la libertà di inseguire i nostri sogni, di vivere le nostre emozioni, di coltivare le nostre passioni portandoci per mano, senza grandi stravolgimenti, ad allargare i confini di quel rigido modello educazionale che ci voleva esclusivamente dediti all’impegno scolastico ed obbedienti al potere costituito, genitori innanzitutto e a seguire i professori. In una parola, ad assumere piena consapevolezza che il costrutto ormai asfittico che voleva tutto il buono, il bello, il corretto delle nostre giovani esistenze potesse scaturire solo dal seguire pedissequamente le regole. In realtà, poteva nascere anche dall’infrangerle.
Vincenzo Centonze