Cronaca di una scelta di vita
MI ISCRISSI AL P.C.I. NELLA TARDA ESTATE DEL 1966
Il segretario della locale sezione, Vito Leonardo Del Negro, mi aveva chiesto un appuntamento per parlarmi “di cose serie”. Così disse! Ci conoscevamo ormai da qualche anno.
Come responsabile del Circolo di Collaborazione Civica di Trinitapoli “Francesco Saverio Nitti” ero spesso in contatto con i dirigenti della D.C., del P.C.I. e del P.S.I. per invitarli ad eventi commemorativi (per es. Festa della Liberazione, anniversario della Repubblica ecc.) o a pubblici dibattiti sulla Costituzione o su problemi di attualità che organizzavamo di frequente.
Ho ancora vivo il ricordo di affollate assemblee per discutere di “libertà di stampa in Italia e nell’Urss”, dopo l’arresto a Mosca degli scrittori Andreij Sinijavskij e Iulij Daniel, ricordo un animato dibattito per la introduzione del divorzio già prima del progetto di legge degli onorevoli Loris Fortuna e Antonio Baslini, e un altro sulla “libertà religiosa in Italia” dopo la condanna del tribunale di Foggia dei seguaci di una religione asiatica e i numerosi e appassionati dibattiti sulla pace nel mondo mentre infuriava la guerra degli USA contro i vietnamiti che scuoteva le coscienze di milioni di uomini di tutti i continenti.
Il nostro attivismo non sfuggiva all’attenzione dei partiti politici tutti impegnati, dopo lo sventurato ventennio fascista, a riavvicinare alla politica gli italiani e soprattutto le nuove generazioni. Non sfuggiva soprattutto al segretario del P.C.I. incessantemente impegnato in una quotidiana opera di proselitismo.
IL COMPAGNO VITO LEONARDO DEL NEGRO
Bracciante specializzato, avviato al lavoro dei campi in giovane età, non aveva completato il ciclo elementare di studi ma si era formato con la lettura della stampa comunista, il quotidiano l’Unità e il settimanale Vie Nuove. Aveva aderito al P.C.I. dopo il congedo militare su sollecitazione del suocero Vincenzo Capodivento. Un autentico autodidatta! Del Negro era instancabile. Dedicava ogni momento della giornata alla politica ma sapeva trasferire a livello politico anche le istanze che i lavoratori sostenevano nelle lotte sindacali. Erano gli anni del cosiddetto “miracolo economico” con i lavoratori in lotta per una più equa distribuzione della maggiore ricchezza prodotta e per le riforme del sistema di sicurezza sociale (pensioni, indennità di disoccupazione, di malattia, di maternità, di assegni familiari) e per la conquista di quello che poi sarà Lo statuto dei diritti dei lavoratori.
Un autodidatta anche nella musica che coltivava suonando il clarino nella banda municipale. presente in sezione per orientare e per rispondere alle mille domande dei compagni a cui spesso leggeva e spiegava gli articoli del quotidiano del partito. Si sforzava di creare o rinsaldare nei lavoratori, specialmente nei giovani, una coscienza di classe e la consapevolezza dei propri diritti.
Possedeva due armi molto efficaci: un palchetto ed una lavagna. Era questa una tavola di legno della grandezza di due metri per uno, cosparsa di vernice nera, da appendere ad un chiodo fuori della sezione, su cui con un gessetto bianco teneva informata la pubblica opinione di fatti e misfatti della vita politica locale, nazionale ed internazionale. Non c’erano soldi per stampare manifesti! Un ciclostile, frutto di una colletta interna, comparve in sezione parecchi anni più tardi.
Il palchetto, nei periodi di più intensa attività politica o durante le campagne elettorali, era sempre montato ed adornato con un drappo rosso. All’occorrenza due braccia robuste lo piazzavano in un attimo davanti alla sezione.
Era il segnale che quella sera avrebbe parlato “Lanàrd”, come affettuosamente tutti lo chiamavano. Un pubblico sempre numeroso partecipava ai suoi comizi. In prima fila, schierati a corona quasi a proteggere il compagno e pronti ad applaudirlo, i militanti accorsi con sincero spirito di disciplina e condivisione. Tutti gli altri dietro, a debita distanza, quasi a sottolineare la loro estraneità ma comunque visibilmente interessati. L’oratore non deludeva mai.
Con un linguaggio diretto, con parole appassionate miste a frasi, motteggi, citazioni e proverbi in puro dialetto casalino, rendeva comprensibili i problemi politici più complessi anche al più umile dei lavoratori. Del Negro percorreva le vie cittadine a bordo della inseparabile Vespa e quando scorgeva un gruppo di giovani studenti immancabilmente si fermava facendo in modo di intavolare con loro una discussione, sull’ultima malefatta dell’amministrazione comunale, sui nuovi quartieri privi di ogni servizio, sulla insufficienza delle case popolari, sul misero salario dei braccianti, sul diritto al lavoro e sulla necessità della lotta per costruire una società migliore basata sulla eguaglianza e sulla giustizia sociale.
Quando si infervorava assumeva un atteggiamento ispirato che inculcava speranza in un mondo migliore e scuoteva gli animi più pigri. Su noi giovani esercitava un indiscutibile fascino. I lavoratori lo amavano, i borghesi lo stimavano. Fu consigliere comunale per 18 anni, dal 1954 al 1972, anno della sua prematura scomparsa e, per un breve periodo, fu anche a capo dell’amministrazione comunale come Assessore Anziano in sostituzione del sindaco Michele Mastropierro. Quando prendeva la parola, nell’aula consigliare cessava immediatamente ogni brusio. Tacevano i compagni e tacevano tutti gli altri, segno di una riconosciuta autorevolezza.
A capo di un gruppo composto solo da braccianti, orgogliosamente comunisti, elevava la sua alta statura dallo scranno all’estrema sinistra, niente affatto intimidito dal folto schieramento avverso di medici, di insegnanti, di avvocati, di ragionieri, di geometri e di pubblici impiegati.
Analizzava ogni punto dell’ordine del giorno anche il più modesto, sempre e rigorosamente dal punto di vista della classe dei lavoratori che essi plasticamente rappresentavano. Meditando sempre più spesso sulle sue parole, le mie certezze di liberal democratico mi apparivano sempre più inadeguate a spiegare la complessità della vita sociale. Era ancora forte su di me l’influenza di un altro uomo che considero decisivo nel mio percorso di maturazione civile. Nei tre anni del Liceo, al Casardi di Barletta, il professor Michele Mascolo, docente di Storia e Filosofia, mi aveva educato alla coltivazione del dubbio sviluppando le mie capacità di analisi critica. Ma il suo orizzonte non oltrepassava i confini dei valori liberali.
IL GIORNO DELL’ADESIONE AL P.C.I.
Ci incontrammo una domenica mattina di agosto sotto i pini di viale Vittorio Veneto per sfuggire alla calura estiva. Del Negro era accompagnato da un’altra persona, Pasquale Carbonaro, che mi presentò come un membro della segreteria provinciale del P.C.I. A novembre ci sarebbero state le elezioni per il rinnovo del consiglio comunale esordì ben presto dopo una breve chiacchierata sulla situazione politica italiana. I comunisti di Trinitapoli erano decisi a compiere ogni sforzo per riconquistare il comune, perduto dopo 8 anni di amministrazione social comunista. Dalla espressione del volto e dal tono della voce, si capiva che la ferita non si era ancora rimarginata e che quella cocente sconfitta era vissuta come un disonore che urgeva riscattare. Il compagno della Federazione assicurò che l’aiuto della segreteria provinciale non sarebbe mancato.
Ciò significava, considerate le ristrettezze economiche della sezione, che Foggia avrebbe sopportato le spese della pur sobria campagna elettorale. E in più promise la presenza in loco di “un costruttore”. Così erano chiamati quei compagni che venivano mandati in missione per costruire un embrione di partito ove mancasse del tutto oppure per rafforzare un gruppo dirigente in situazioni che richiedevano un particolare impegno.
Il compagno Carbonaro, però, era venuto a Trinitapoli con un altro obiettivo, ricercare energie nuove soprattutto giovanili, per rafforzare la rete dei quadri dirigenti del partito. Era questo un impegno costante del dipartimento centrale di organizzazione e formazione quadri. Non mancarono di esprimere stima e apprezzamento per l’attività politico-culturale che io ed i compagni del circolo svolgevamo ormai da qualche anno, rivelando che eravamo stati oggetto di particolari attenzioni.
A questo punto mi chiesero di candidarmi nella lista del P.C.I. Restai interdetto. Superata la sorpresa replicai che stavano puntando sulla persona sbagliata, non potevo aiutarli nella grave impresa che dovevano affrontare perché non disponevo che del mio voto e forse di quello di mia madre. Del Negro mi disse che non mi stavano proponendo di entrare in lista per i voti che avrei potuto raccogliere, “a quelli ci avrebbe pensato il partito”, ma per il segnale di una sincera apertura verso i giovani e altri ceti sociali che la mia candidatura avrebbe dato alla pubblica opinione.
Con tono molto serio aggiunsero che la proposta non era il frutto di una improvvisata ed effimera infatuazione giovanilistica ma espressione di una precisa strategia politica e di un lungo periodo di osservazione a cui mi avevano sottoposto.
Rassicurato che da me non si aspettavano voti di cui non disponevo, il dialogo divenne più sciolto e si allargò a molteplici aspetti della vita politica, rivelando una reciproca e profonda affinità ideale. Superate le ultime obiezioni alla fine accettai. La verità è che la proposta mi veniva fatta nel momento in cui le mie scelte politiche erano già compiute.
Da tempo avevo deciso da che parte stare. A giugno di quell’anno si erano svolte le elezioni per il rinnovo del consiglio provinciale di Foggia e avendo già compiuto i 21 anni (la maggiore età di quel tempo) potetti finalmente esprimere il mio primo voto. Si votava con il sistema proporzionale uninominale: in ogni collegio un candidato per ogni lista.
Avevo votato convintamente P.C.I. e il destino aveva stabilito che votassi il compagno Vito Leonardo Del negro, candidato, appunto, nel collegio nel quale risiedevo. Il compagno Pasquale Carbonaro, ricevuto il mio consenso e ignaro di questo voto, timidamente mi chiese se sui manifesti della lista accanto al mio nome dovessero scrivere “indipendente”.
Con determinazione risposi di no perché in quel momento non stavo aderendo solo alla lista ma anche al partito. Fu un NO liberatorio, sgorgato dal profondo dell’animo che mi riscattava dall’avvilimento che mi aveva colto in un viaggio verso l’Austria nel precedente mese di luglio in compagnia di una ragazza svedese e del fidanzato che avevo conosciuto nell’Ostello per la Gioventù.
Sostavamo in una radura nell’Appennino tosco-emiliano e mentre il giovane era intento a prepararci da mangiare, la ragazza, appoggiata al tronco di un albero, era assorta nella lettura di un libro. Dal titolo (Kommunistpartiets manifest) ne intuì il contenuto e non potetti fare a meno di chiederle se fosse comunista. Assentì e grazie alla sua conoscenza della nostra lingua ne seguì una interessante conversazione sul partito comunista svedese e sul ruolo del P.C.I. in Italia. Quando ci rimettemmo in viaggio ero pensieroso e piuttosto avvilito.
Quella ragazza così fiera delle sue idee politiche mi fece sentire quasi un codardo per non essermi ancora iscritto al partito benché il mese prima ne avessi votato la lista. Con quel NO avevo risolto l’intima contraddizione che mi angustiava e messo a posto la mia coscienza. La campagna elettorale fu molto aspra, si dissolse in un attimo il clima sereno e costruttivo in cui i partiti partecipavano ai nostri dibattiti. Da ambo le parti non si risparmiavano attacchi feroci e provocazioni in una miscela sgradevole di propaganda e falsità.
Vivemmo con profondo dolore il tradimento di due compagni che durante un comizio della D.C. ripudiarono la tessera pubblicamente, sedotti dalla promessa di una assunzione alla Lanerossi. La D.C. aveva investito enormi somme di danaro: decine di “galoppini” ben remunerati a bordo di auto, ricoperti di manifesti e dotati di autoparlanti, scorrazzavano incessantemente per le vie cittadine, distribuivano migliaia di volantini, lanciavano “santini” incuranti delle limitazioni di legge, ricoprivano di manifesti ogni spazio libero, distribuivano beni di consumo e tante promesse. Inferiori di numero, fronteggiammo gli avversari serrando le fila e chiamando all’impegno ogni tesserato e la loro famiglia.
A mani nude, ma con tanta buona volontà e tanti sacrifici personali, percorremmo il paese da cima a fondo supplendo alla scarsezza di risorse e di equipaggiamenti. Incoraggiato dal compagno Del Negro, dopo un comizio di esordio in corso Trinità, davanti alla sezione, fui impiegato in innumerevoli comizi rionali mentre la notte accompagnavo il compagno Nicola Fuochicelli ad affiggere i nostri manifesti. Scoprì che la colla veniva prodotta in sezione mescolando acqua, farina e soda. Si risparmiava anche sulla colla!
LE ELEZIONI COMUNALI SI SVOLSERO IL 26 E IL 27 NOVEMBRE 1966
La D.C. ottenne la maggioranza assoluta conquistando 18 seggi su 30 mentre il P.C.I. ne perse due scendendo da dieci a otto, sette braccianti ed uno studente universitario, e quattro furono attribuiti alla lista alleata P.S.I.-P.S.D.I. Fui il primo degli eletti con oltre 1.000 voti di preferenza seguito da Del Negro e dall’ex sindaco Michele Mastropierro. Conosciuti i risultati restai sbigottito e molto imbarazzato.
Mi sentivo come un ladro. Quella messe di preferenze riversata sulla mia persona non era l’esito di un furto ma il frutto della grande generosità, della intelligenza politica di tutti i candidati, di tutti i compagni della sezione e della autorevolezza dei loro dirigenti le cui indicazioni erano state rigorosamente rispettate. Credo di poter affermare che la mia storia politica possa essere letta come la storia della fedeltà a quel profondo legame, umano e ideale, che si stabilì in quella campagna elettorale. La sconfitta non mi piegò ma mi spinse ad un impegno sempre maggiore. Nel febbraio del 1967, insieme a Giovanni Mastopierro, figlio dell’ex sindaco Michele, fummo inseriti in una foltissima delegazione di giovani comunisti ospitati dal governo sovietico in occasione del 50mo anniversario della rivoluzione di ottobre.
OLTRE I CONFINI DOMESTICI
Giunti a Mosca, a bordo di moderni Ilyushin dell’Aeroflot, visitammo subito il “monumento al 20mo Km”. Costituito da enormi cavalli di Frisia, ricordava il luogo, a 20 kilometri da Mosca, in cui i russi nel dicembre del 1941, fermarono la travolgente avanzata dei tedeschi capovolgendo le sorti dell’operazione “Barbarossa”. Eravamo ospiti della Unione della gioventù comunistaleninista (Konsomol) i cui dirigenti incontrammo nella sede centrale nei pressi della piazza rossa, accolti da giovani interpreti. Era pronto un intenso programma di visite e di incontri con importanti personalità del partito e della cultura, contenti di illustrare con orgoglio i progressi raggiunti dall’URSS, nonostante i tributi di sangue versati in due conflitti mondiali.
Entusiasmante fu l’incontro con il famoso astronauta Aleksej Leonov che per primo passeggiò nello spazio avventurandosi fuori del veicolo spaziale Voskd-2. Visitammo il museo della rivoluzione e della epopea di Lenin, la famosa metropolitana riccamente decorata, l’imponente edificio staliniano della università Lomonosov e il Cremlino ove assistemmo anche ad una esibizione della compagnia del teatro Bolshoi. Rinunciammo a rendere omaggio nel mausoleo alla salma di Lenin scoraggiati dalla interminabile fila di visitatori.
Ci divertimmo agli spettacoli del Circo stabile di Mosca. E acquistammo souvenir nei magazzini Gum (magazzino universale principale). A sera passeggiavamo sulla piazza rossa, discutendo e commentando eventi, visite ed incontri della giornata. Il programma prevedeva che ciascuno visitasse anche una repubblica socialista. Io scelsi di visitare Tashkent e Samarcanda in Uzbekistan, Giovanni Mastropierro la Bielorussia, altri raggiunsero la Siberia, l’Ucraina, la Georgia ed altre repubbliche.
Dopo la visita della capitale ci trasferimmo a Samarcanda, capitale dell’antico impero di Tamerlano. Visitammo moschee e madrasse. Un particolare ricordo ho dell’osservatorio astronomico fatto costruire nel 1.300 dal principe astronomo Ulegh-Beg, con cui fu calcolata la durata dell’anno in 365 giorni e la inclinazione assale della terra tuttora confermata. Non poteva mancare la visita ai Kolkoz (comunità contadine che gestivano in comune la terra) ove assistemmo a uno spettacolo musicale nel loro teatro.
Ballai con la segretaria generale del partito uzbeko che con orgoglio mi raccontò che nel 1920 nella piazza centrale di Bukara (centro islamico per eccellenza) le donne in segno di liberazione bruciarono i veli. Fu un viaggio di studio molto interessante, a quei tempi Mosca era la nostra Gerusalemme. Tornammo convinti che, nonostante i limiti che pur scorgevamo, una società socialista fosse possibile. Ero sempre carico di entusiasmo e di buona volontà.
Per arricchire la mia formazione la Federazione provinciale di Foggia mi fece frequentare la famosa scuola quadri del partito, comunemente nota come la scuola delle Frattocchie, dal nome della contrada fuori Roma ove si trovava. Anche quella fu un’esperienza di studio e di vita comunitaria che contribuì a rinsaldare la mia scelta politica.
Emozionanti furono gli incontri con prestigiosi compagni che avevano lottato contro il fascismo e sofferto lunghi anni di carcere o di esilio. Partecipai anche al meeting internazionale della gioventù democratica e comunista di tutto il mondo per la pace e contro l’aggressione americana al popolo vietnamita che si tenne a Helsinki. Erano convenuti giovani provenienti dalle più disparate esperienze politiche.
Ricordo i compagni spagnoli, portoghesi, africani e dell’America latina che erano giunti in Finlandia in modo rocambolesco stante le limitazioni imposte dalle dittature dei loro paesi. La narrazione di vite in fuga, in esilio o in clandestinità, di azioni di sabotaggio e di incursioni militari, di uccisioni, di persecuzioni, di torture e di carcerazioni, mi facevano riflettere sul grande lascito di libertà e di democrazia che il popolo italiano ha ricevuto da coloro che, anche a costo della vita, avevano combattuto contro il regime fascista. E di tutto ciò oggi, purtroppo, sembra perduta la memoria! Indimenticabili e commoventi furono gli incontri con i giovani combattenti vietnamiti del fronte nazionale di liberazione. Molti, benché giovanissimi, erano già decorati a valor militare.
IL RITORNO A TRINITAPOLI
Rientrato a casa mi lanciai nelle lotte politiche e sindacali che in quegli anni scossero l’Italia dalle fondamenta, incurante del cordone sanitario che nel frattempo la D.C. aveva costruito intorno a me. Tanto più mi legavo a quei compagni che mi avevano accolto con tanto affetto e fiducia tanto più aumentava la ostilità della meschina piccola borghesia locale nei miei confronti.
Un cordone sanitario che non risparmiava nessun aspetto della vita, da quello di relazione a quello professionale. Ricordo ancora con amarezza i dinieghi che io e mia moglie ricevemmo, quando in vista del matrimonio, ci mettemmo in cerca di una casa da prendere in affitto. Sembrava che si stesse avverando quella sorta di maledizione che mi fu scagliata contro al termine del mio primo comizio per conto del P.C.I.
Erano venuti ad ascoltarmi in tanti, anche un gruppo di professori, uno di loro mi avvicinò e mi rimproverò aspramente perché “avevo tradito la classe”, essendomi schierato dall’altra parte e che me ne sarei pentito. Non ho mai dubitato della giustezza di quella scelta e se tornassi indietro la rifarei.
Gli ostacoli che incontrai sul mio cammino, i temporanei insuccessi, i tradimenti, la ingratitudine, le calunnie non mi hanno mai abbattuto, aiutato da una personale attitudine a non angustiarmi troppo delle miserie umane ma a guardare avanti. Sono grato al mio professore di filosofia che educò il mio spirito critico e offerto una visione laica della vita e al compagno Vito Leonardo Del Negro per avermi insegnato che ogni libertà è vuota ed effimera se non si accompagna alla giustizia sociale. Spero di aver onorato i loro insegnamenti perché parafrasando il papa Gregorio VII posso sinceramente concludere “dilexi iustitiam odivi iniquitatem”.