Di Roberto Tarantino, Presidente Onorario ANPI BAT
Anche quest’anno, con l’approssimarsi del 10 febbraio, si è scatenata la solita cagnara che, prendendo spunto dalle celebrazioni del Giorno del ricordo, si manifesta mediante una lettura strumentale e molto poco storica della tragedia delle foibe e delle vicende legate all’esodo dal confine italo-sloveno che vengono presentate come genocidio degli Italiani e, addirittura, sconvenientemente paragonate alla Shoah.
E succede che chiunque non accetti questa vulgata, chiunque si sforzi di prendere in considerazione la politica portata avanti durante il Ventennio nelle zone del confine orientale non per giustificare, ma per meglio comprendere quanto successo dopo la caduta del fascismo, viene accusato di riduzionismo, se non addirittura di negazionismo e di essere un fazioso nemico della pacificazione.
Quando l’Italia, all’indomani della Prima guerra mondiale, incorporò nel proprio territorio nazionale quelle terre con coloro che le abitavano (anche Sloveni e Croati), anziché seguire una politica basata sul rispetto di quelle minoranze etniche e linguistiche, scelse quella della snazionalizzazione, dell’assimilazione forzata che venne praticata in maniera anche violenta e brutale.
Già il 13 luglio del 1920 venne incendiato da estremisti fascisti e nazionalisti il Narodni Dom, la sede delle organizzazioni degli sloveni triestini. Le violenze si susseguirono: il Regno d’Italia e soprattutto il regime fascista priveranno le popolazioni locali del diritto all’uso della lingua madre e, con la chiusura delle scuole, i confinamenti e le deportazioni, metteranno a rischio la sopravvivenza stessa della comunità slovena a Trieste. I rapporti provenienti da quelle zone parlavano espressamente di italianizzazione, di assimilazione, di epurazione e di bonifica etnica.
Il 1° marzo 1942, il generale Mario Roatta, emanò la famigerata Circolare 3C che diede il via a rappresaglie, a incendi di case e villaggi, ad esecuzioni sommarie anche di donne, bambini e vecchi, al rastrellamento e all’uccisione di ostaggi innocenti, all’internamento di civili nei campi di concentramento italiani tra i quali quelli famigerati e più inumani di Gonars e di Arbe.
Per combattere la Resistenza partigiana jugoslava, le disposizioni che dovevano essere eseguite “senza false pietà” e seguendo il criterio “non del dente per dente, ma della testa per dente”, non lasciavano alcuno spazio a dubbi o a interpretazioni: “Se necessario, non rifuggire da usare crudeltà. Deve essere una pulizia completa. Abbiamo bisogno di internare tutti gli abitanti e mettere le famiglie italiane al loro posto”. “L’internamento può essere esteso … sino allo sgombero di intere regioni, come ad esempio la Slovenia. In questo caso si tratterebbe di trasferire, al completo, masse ragguardevoli di popolazione … e di sostituirle in loco con popolazioni italiane”.
Lo stesso Mussolini, il 30 luglio 1942, affermò: “Sono convinto che al terrore dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli Italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazione”.
I risultati di questa politica, di questi ordini e delle conseguenti operazioni sono tristemente noti: 13 mila uccisi fra partigiani e civili, circa 30 mila deportati in campi di concentramento, 83 condanne a morte, 434 ergastoli, 2695 pene detentive per un totale di 25.459 anni.
È sufficiente questo a giustificare le violenze avvenute dopo la caduta del fascismo? I partigiani titini dell’Esercito Popolare per la Liberazione della Jugoslavia furono indenni da colpe? È proprio vero che in quegli anni, in quelle terre di confine c’erano da un lato gli Italiani “brava gente” e dall’altro i “barbari sanguinari”? Quanti furono gli infoibati: duemila, diecimila, ventimila?
Trovare risposte a queste domande non è facile; certo è che chiunque voglia manipolare la Storia per convenienza, giocare con la memoria e tentare di asservirla ai propri interessi di parte non potrà mai dare un significativo contributo alla ricostruzione della verità storica e a nulla serviranno celebrazioni e cerimonie: non ci sarà mai pacificazione.
È necessario che siano gli storici a occuparsi della ricostruzione della verità storica e che possano farlo senza alcun condizionamento, senza alcuna imposizione, con onestà intellettuale, sulla scorta di fonti verificabili e attraverso una contestualizzazione ampia degli eventi.
Nessuno può negare che le foibe furono un crimine, nessuno può negare che l’esodo forzato di intere famiglie da quelle terre dove convivevano, dove si mescolavano Slavi, Italiani, Tedeschi fu una pagina tristissima della Storia del Novecento.
Quegli eventi, però, dovrebbero essere inquadrati e letti non come conseguenza della contrapposizione tra un’identità nazionale buona (noi) e un’altra cattiva (gli altri), perché la barbarie nasce quando le differenze smettono di essere ciò che sono e diventano pretesto per l’odio, per costruire muri e trincee; nasce quando gli uomini smettono di parlarsi e iniziano a sparare l’uno contro l’altro.